Londra, Rio, Tokyo e Parigi. Quattro fallimenti silenti, passati sotto traccia. Perché, col calcio che intasa continuamente calendari vari, l’Italia olimpica può diventare soltanto un ulteriore intralcio. E se è vero che i giovani sono una grande risorsa, seppur apparente e tirata fuori a fasi alterne soltanto in caso di fragorose cadute, è giusto celebrare l’ultima grande vittoria del calcio italiano giovanile a livello di Under 21, un bronzo che ha preso il sapore dell’oro dopo la batosta incassata contro l’Argentina.
Ventiquattro anni fa, il 27 agosto 2004, gli azzurrini di Claudio Gentile salivano sul gradino più basso del podio di Atene 2004 per prendersi una medaglia che di lì a poco avrebbe spianato la strada alla vittoria del Mondiale 2006, penultimo grande atto di una Nazionale che da quel momento in poi ha cercato soltanto appigli vari per non affondare definitivamente. Amelia, Chiellini, Bonera, Barzagli, ma soprattutto De Rossi, Pirlo e Gilardino che due anni dopo, nella notte di Berlino, scrivevano uno dei capitoli più emozionanti della storia del pallone nostrano: una Nazionale non proprio Under 21 per via delle regole a cinque cerchi, ma che riuscì a mettersi in mostra in un torneo complesso arrivato al termine di una stagione massacrante.
Un gruppo dal sapore nostalgico, non sappiamo bene se per via del tempo che passa o per l’effettivo valore di una rosa che riusciva a esprimere un gran calcio. Qualche settimana prima la banda di Gentile era tornata sul tetto d’Europa per la quinta volta — nessuno avrebbe mai potuto immaginare che quello, a oggi, resta l’ultimo titolo continentale dell’Under 21 — strapazzando la Serbia in finale (all’epoca ancora accomunata al Montenegro) e riservando un trattamento più o meno simile al Portogallo. Alle scorribande in campo europeo si aggiunse pure quel sogno di una notte di mezza estate nato e cresciuto nella culla dei Giochi a cinque cerchi: un desiderio costante alimentato da un centrocampo stellare in cui Daniele De Rossi era un mediano anima e core e Andrea Pirlo era un fuoriquota che iniziava già a collezionare un trofeo dopo l’altro. Testa e polmoni, qualità e tanta quantità per formare quello zoccolo duro che oggi è quasi una chimera: da una parte lui, Andrea, che col Milan è già abituato a passeggiare in mezzo al campo con quel fare compassato che mai nessuno è riuscito ad interpretare realmente; dall’altra Daniele, un giocatore che in quel momento sta crescendo nell’ombra di Francesco Totti ma desidera far vedere al mondo intero quella vena gonfia di rabbia e passione, gioia e necessità, talento e tanta garra.
Ma è anche l’estate di un fenomeno dell’area di rigore, passato sottotraccia, perché il livello è talmente tanto alto che emergere diventa complicato pure per chi la porta la vede con una certa costanza. Quattro sberle rifilate all’Europeo, quattro pure all’Olimpiade, a partire dal Ghana fino ad arrivare alla finalina contro l’Iraq: Alberto Gilardino in quell’anno ne ha già segnati 26 diventando gradualmente quel giocatore completo che di lì a poco Marcello Lippi trasformerà da giovane di belle speranze a un attaccante completo, abile palla al piede e in grado di esserci sempre negli ultimi venti metri di campo.
Quella squadra sorprende non tanto per la presenza di talenti che strappano applausi e fanno stropicciare gli occhi, di mezzo ci sono giocatori fermi in un angolo a prendere appunti per il futuro come Giorgio Chiellini, difensore messosi in mostra al Livorno. Pochi minuti giocati in Grecia, quel bronzo non diventa un punto d’arrivo come molti atleti, ma la partenza di una carriera dedicata al bianconero e culminata con la lectio magistralis tenuta nell’Europeo itinerante del 2021 insieme al suo assistente di fiducia, Leonardo Bonucci. E per completare il quadro è giusto parlare anche dell’altro centrale che a distanza di due anni diventerà uno degli eroi di Berlino per poi vivere una seconda e terza giovinezza sempre con la maglia della Juventus, quell’Andrea Barzagli che studia dai grandi per diventare grande. Anche lui verrà apprezzato, con colpevole ritardo, da chi non riesce a capire minimamente cosa sta per accadere: mai avremmo potuto pensare che simili giocatori sarebbero stati rimpianti con gli interessi.
Il percorso degli Azzurri nell’estate greca inizia col pari contro il Ghana, prosegue con la vittoria contro il Giappone e il ko incassato dal Paraguay, poi vincitore dell’argento. Mali e Iraq sono le parentesi positive, la batosta con l’Argentina una lezione tanto severa quanto difficile da apprendere in quel preciso istante: sembrerà una caduta banale, innocua, da dimenticare in fretta, sarà invece il primo campanello d’allarme di un Paese che da lì a poco si renderà conto di non essere più in grado di produrre talenti ma soprattutto gruppi coesi, amalgamati tra loro e in grado di fronteggiare coppe e campioni. L’Albiceleste del Loco Bielsa sembra inarrivabile, lo diventerà col passare degli anni: è un boccone amaro da mandare giù, ma il bronzo conquistato pochi giorni più tardi aiuterà a dimenticare in fretta. Il gol di Gilardino è la solita azione vista e rivista, un film proiettato più volte durante l’arco del campionato: colpo di testa al momento giusto e tanti saluti, l’Italia non sarà d’oro ma sul podio farà festa comunque.
Il bronzo però sembra non avere lo stesso appeal che ha per altri atleti, sport che troppo spesso vengono messi in pausa per essere riscoperti soltanto ogni quattro anni. Quegli atleti con l’ambizione di chi vuole arrivare a tutti i costi su quel gradino più basso del podio, un sogno costruito per un quadriennio intero, coccolato anche quando le avversità sovrastano e spazzano via gioie e sacrifici. L’élite azzurra snobba i cinque cerchi, quella chiamata di Pirlo sembra quasi un fastidioso prurito da eliminare il prima possibile: va bene pure il terzo posto, purché ci si sbrighi a tornare in Italia, c’è un campionato da ricominciare, grazie. Intanto per l’Argentina sembra un Mondiale, ma da lì a poco l’olimpica rappresenterà un intralcio per quasi tutte le Nazionali. Il rapporto Olimpiadi-calcio si sfalda gradualmente, tra polemiche e necessità di innovare uno sport che una volta ogni quattro anni viene sovrastato, messo da parte. E alimenta quel dubbio se continuare o meno con quel pallone che spesso intasa un calendario pieno zeppo di impegni e viaggi per il mondo.
Ma il mal comune non deve rappresentare per nulla il mezzo gaudio. L’Italia pallonara soffre e vive di ricordi aggrappandosi a risultati storici che soltanto a distanza di vent’anni hanno riscoperto il loro vero valore, ripassando nomi e liste che lasciano amaro in bocca e nostalgia dopo i fallimenti degli ultimi anni e le solite parole pronunciate senza nemmeno far caso a ciò che si dice. Quelle che non invecchiano mai, dedicate ai giovani, tirati fuori dalla bacheca impolverata a piacimento, tanto per ricordare quanto siamo stati grandi. Come si fa con una vecchia medaglia di bronzo, rimasta lì a rappresentare quella grandezza intaccata dai segni del tempo e che continua a rimanere lì immobile, col tempo che scorre inesorabilmente.