L’eleganza non è estetica

Una riflessione sul concetto di eleganza in campo: è un mezzo, non un fine. E appartiene a giocatori speciali.

L’eleganza è un mezzo. È un modo di stare in campo che non ha a che fare con l’estetica funzionale: il gesto perfetto che porta a un risultato. Può essere un tocco di tre metri, un tunnel, un lancio. Può essere un tiro come quello di Andrea Pirlo contro l’Atalanta: la maledetta in movimento, l’hanno chiamato. Ovvero il modo con cui batte solitamente le punizioni, cioè con le tre dita, facendo fare alla palla l’ascensore giù-su-giù, ma fatto con la palla in gioco. Ecco, quella soluzione era l’unico modo per ottenere quel risultato e la bellezza del gesto è lo strumento con cui quel risultato è stato ottenuto. Il calciatore elegante è bello da vedere, è armonia. Ma non è necessariamente il più figo. È un genio essenziale: se mi serve un tocco per fare ciò che voglio fare, per esempio mettere il compagno davanti al portiere, perché farne di più? È il talento della sottrazione, l’eleganza. Che fa venire in mente subito Fernando Redondo. È probabilmente il giocatore più elegante degli ultimi trent’anni, per qualcuno di sempre, e quel qualcuno si chiama Alex Ferguson oppure Jorge Valdano. Redondo era quella cosa lì, «one touch perfectionist», come lo definì un po’ di tempo fa Simon Kuper sul Financial Times. Dalla e vai, anzi, dalla e non andare, perché il giocatore elegante spesso non ha bisogno di correre.

L’eleganza è uno stile di gioco e si può dire che sia in qualche modo sinonimo di lentezza. Lo dici oggi, in un calcio ultra veloce, quello di Mbappé, Yamal dopo gli anni di Bale, Cristiano Ronaldo Messi. In questo calcio Rodri e Modric sono lenti come lo erano Pirlo e Xabi Alonso. Dove per lento si capisce che si sta parlando di uno che ha perfettamente chiaro un postulato: «È la palla che deve correre, non necessariamente il giocatore». La frase, con qualche piccola variazione, la disse José Pekerman, ex commissario tecnico della Nazionale argentina e della Colombia, riferita a Riquelme, altro giocatore elegantissimo, altro monumento dello stile come mezzo di espressione del talento. Giocatori così sono spesso amati dagli altri giocatori. Iniesta diceva che Riquelme sia stato più forte di Messi; Maldini sosteneva di non aver mai visto un giocatore con la classe di Redondo; Fàbregas, Xavi e Piqué hanno definito Pirlo «il vero genio del calcio moderno».

C’è che i calciatori di questa specie sono spesso tutto ciò che tanti altri, pur diventati campioni, hanno sempre desiderato essere. Perché non è vero che quando uno comincia a giocare a pallone desidera solo segnare. Bisogna crescere in una scuola calcio: pulcini, esordienti, giovanissimi, allievi. Lì maturi cercando di sviluppare sul campo quel che nella tua testa è un’idea: la perfezione. E lì, arrivando dall’esterno, vedi ciò che non immagineresti da fuori: la voglia di essere un giocatore perfetto, quello che non deve pensare a controllare la palla, che non deve neanche vederla, perché non ne ha bisogno, quello che tiene la testa alta, che ha realizzato il desiderio di ogni allenatore: «Quando ricevi il pallone devi aver già visto a chi darlo». Un tocco può bastare. Scegli tu se fare il secondo, il terzo, il quarto. La libertà è direttamente proporzionale alla sicurezza dei propri fondamentali: stop, controllo, difesa della palla, passaggio. E testa alta, sì.

Il calciatore elegante non è cresciuto per strada, ammesso che ci possa essere nel calcio moderno un giocatore che sia davvero cresciuto per strada. È stato costruito in un laboratorio in cui il talento è stato messo al servizio del gioco, perché altrimenti l’estetica smetterebbe di essere un mezzo e diventerebbe un fine. Diceva Cruyff che «la creatività non fa a pugni con la disciplina». Ecco, basta. Basta se lo dice uno considerato il punto uno del calcio elegante contemporaneo. Quello di cui Ricardo Enrique Bochini, argentino amato da Maradona al punto che lo chiamava Maestro, disse: «Corre tanto, ma è bravo». Era la dimostrazione del legame tra eleganza e lentezza. Con eccezioni che partono da lì, dalla metà degli anni Settanta, e arrivano a oggi. Perché ciò che non sapeva ancora Bochini, ma sappiamo noi, è che con Cruyff è nato un nuovo modo di essere giocatori di classe. Perché il talento creato, impostato, coccolato, custodito, confezionato, impacchettato, imbustato è un talento meraviglioso. È profondamente connesso con il senso di squadra.

Il caso di Pirlo è stato simbolico. Perché tutti pensano che la porta girevole della vita sia stata retrocedere di venti metri, scendere da trequartista a regista. Vero, ma tutto ciò è potuto accadere perché ai tempi delle giovanili del Brescia aveva calibrato il suo gioco in funzione di un risultato collettivo e non di una medaglia individuale. Era il torneo di Viareggio del 1996, giocava con il 10 in una squadra di ragazzi due-tre anni più grandi di lui. Era il Brescia di Baronio e Pirlo, tutti e due bresciani, cresciuti in un club che li stava allevando per venderli. Baronio era quello più in vista allora: due anni più grande, capitano della Primavera. Regista. Andrea era il trequartista, tecnico, imprevedibile. Era uno stereotipo, quello del 10 che gioca alto, tra la linea del centrocampo e quella dell’attacco: il solista. E invece no, perché era già all’epoca che in un altro ruolo e in un’altra condizione aveva maturato le caratteristiche, le idee, la disponibilità che sarebbero state visibili più tardi: non si torna indietro di venti metri se non ti hanno abituato a giocare per tutti, non ci si allontana dalla porta se non ti sei costruito un’identità che prescinde dalla giocata fine a se stessa.

Rodrigo Hernández Cascante, che tutti conoscono come Rodri, ha giocato con Villarreal e Atlético Madrid prima di trasferirsi al Manchester City (Photo by Lars Baron/Getty Images)

L’eleganza è altruismo interessato. È un servizio che rendi a te stesso e ai compagni. È prendere la palla e non guardarla, ma accompagnarla a destra o a sinistra, fermarla, farla ripartire, toccarla tenendo gli occhi dall’altra parte. È lanciare lungo, profondo, preciso che sa già dove arriverà il compagno che sta tagliando. È l’azione di Pirlo che porta all’assist per Di Natale in Spagna-Italia della fase a gironi dell’Europeo 2012: palla sette metri dentro la metà campo dell’Italia, finta di fermarsi, controllo in movimento con l’interno destro a superare Busquets, controllo di sinistro, passaggio in profondità sempre di sinistro. Una giocata di sei secondi e mezzo, senza mai tenere gli occhi bassi e senza fare un tocco più del necessario. Perché questa è la magia: vai in porta, amico. Avrai sempre un giocatore che prende la palla e ne salta tre, quattro, cinque, dribblando, roteando. È calcio, quello. Ma non calcio elegante.

Concetto soggettivo, lo sappiamo: Van Basten, per esempio era elegantissimo, ma non c’entra con questo tipo di eleganza. Perché pure Zidane era grazioso, armonioso, ma le sue squadre erano lui più altri dieci. Qui si parla di un’altra cosa, di un modo di muoversi, di giocare, di camminare, di occupare uno spazio che non prevede una sceneggiatura da solista. È così quando vedevi giocare Mesut Özil: un’eleganza che non c’entra con quella che riconosci al regista, è tutta sua. Özil è un taglio da una parte all’altra del campo che libera lo spazio al compagno. È una movenza che può anche non prevedere il tocco del pallone. Non c’è niente di più essenziale del gioco senza palla, altra ossessione di qualunque allenatore delle giovanili di qualunque posto del mondo: il ragazzino che si porta a spasso l’avversario senza fare uno scatto, ma con tre passi, sarà un giocatore elegante. Soprattutto: sarà un giocatore. Perché l’eleganza è strettamente connessa con l’intelligenza del gioco.

Ecco, l’intelligenza. È attraverso l’intelligenza che si celebra il ricordo di Redondo e della frase che ha spiegato meglio il suo stile di gioco: «Se Gesù Cristo avesse giocato a calcio, avrebbe scelto la maglia numero 5. Tutto quello che succede in campo passa per i piedi di chi gioca in quel ruolo e con quella maglia». Era la sua maglia, ma nel suo discorso identificava la maglia del giocatore che governa la squadra. Per convenzione era – e spesso è – il regista, ma in realtà può essere un interno, una mezzapunta non particolarmente individualista, un difensore centrale.

L’eleganza è coraggio. È l’equivalente del prendere l’ultimo tiro in una finale Nba, anche se nel calcio può non essere un tiro ciò di cui c’è bisogno. Tipo Germania-Italia 0-2, a Dortmund, il 4 luglio 2006. Minuto 118: petto, destro, sinistro, sinistro, tiro, deviato in corner. E subito dopo angolo, respinta, a lui, a Pirlo: controllo di sinistro, poi destro, mezzo tacco-mezzo interno dentro per Grosso. Una palla che pochi altri al mondo avrebbero visto, perché doveva metterla in un canale stretto tra le gambe di due difensori della Germania, mentre Grosso si stava inserendo. Senza guardare. E Pirlo lì non guarda: ha la testa girata verso la porta dell’Italia, come i no-look del basket. Una giocata così vale più di un tiro, anche se paradossalmente non sarebbe stata niente senza il gol di Grosso. E qui sta l’altra grandezza del giocatore elegante: la fiducia in se stesso e negli altri. Avere il controllo di tutto regala il tempo per pensare cose meravigliose, per inventare quell’unico tocco che serve a ottenere il risultato. Suo o di un compagno. Il talentuoso individualista prende la palla e si fida di se stesso: Messi, Cristiano Ronaldo, come Maradona, Zico, Baggio. Dribblano e calciano. Pirlo no, Rodri neanche, Modric neppure, non se non è strettamente necessario: accettano l’idea che l’errore di un altro possa mettere a rischio anche tutta la propria classe. È un altro pezzo di altruismo interessato. È anche un pezzo di senso di superiorità che non può non vivere nei giocatori così. Perché sanno di essere più forti, lo sanno da sempre. Te lo dicono a parole, se vuoi. Te lo dicono a gesti, anche se non vuoi.

Dal numero 4 di Undici