La bellezza di Dybala è il contrario dell’incompiutezza

Non è diventato il fuoriclasse che ci aspettavamo, ma ci ha regalato tanti momenti indimenticabili.

Nelle ore e nei giorni in cui sembrava che Paulo Dybala fosse destinato a trasferirsi in Arabia Saudita, sono usciti tantissimi commenti e corsivi sull’attaccante della Roma. La maggior parte di questi testi, al di là delle frasi di commiato, rifletteva più o meno in questo modo sull’andamento della sua carriera: Dybala che bellezza e che rimpianto, sei stato un incompiuto ma ti abbiamo voluto bene lo stesso, ci hai regalato grandi momenti di calcio ed emozioni forti ma in realtà potevi fare molto di più, ci dispiace che tu vada via perché perdiamo un talento, ciao e grazie di tutto, anche se…

Ora che la vicenda di mercato si è esaurita da qualche giorno, ora che Dybala ha scelto di restare alla Roma e non ha più molto senso soffermarsi sulle motivazioni (vere o presunte) che hanno portato a questa decisione, cosa resta di quei commenti e di quei corsivi su di lui? In realtà il senso di certe riflessioni e di certe parole non cambia, è ancora lì intatto, ovviamente in attesa di capire cosa succederà nei prossimi mesi. E allora è inevitabile chiedersi: perché, a fine agosto 2024, riteniamo che Dybala sia un incompiuto? Cosa intendiamo quando, in riferimento a un calciatore, parliamo di incompiutezza? Un giocatore come Dybala, un giocatore molto forte che è arrivato a vincere il Campionato del Mondo – in Qatar non sarà stato protagonista, ok, ma era pur sempre l’Argentina di Messi – e che di fatto ha trascinato la Juventus a una finale di Champions League, si può davvero considerare un incompiuto?

Per rispondere a queste domande, con tutta probabilità, basterebbe usare concetti e parole semplici, anche banali se vogliamo. Dybala è un incompiuto, innanzitutto, perché non ha rispettato le aspettative che aveva suscitato e alimentato, perché non ha mantenuto le promesse che ci aveva fatto – anche se indirettamente. Il resto l’ha fatto l’abrasione progressiva di un enorme titolo onorifico, quello di “nuovo Messi”, che sembrava dovesse appartenergli di diritto e che perciò gli era stato appiccicato addosso come un’etichetta su un contenitore di cellophan. Fa niente che Dybala sia stato costretto a fare i conti con una serie di infortuni, di incastri sfortunati: noi avevamo dedotto/deciso/detto che Dybala dovesse diventare un fuoriclasse generazionale e non è stato così, quindi la colpa è di Dybala. Solo di Dybala, tutta di Dybala.

Questa visione nichilista della realtà, a pensarci bene, avrebbe pure un fondo di verità. Effettivamente quando abbiamo scoperto Dybala, nelle prime stagioni a Palermo e poi alla Juve, era difficile non immaginare un futuro grandioso, una carriera straripante. Inoltre c’erano tante affinità che stimolavano l’accostamento – parlare in termini di successione, o anche di semplice paragone, è sempre stato esagerato – a Leo Messi. Col senno di poi, a distanza di anni, il problema è stato proprio questo: abbiamo caricato la figura di Dybala in modo abnorme, e alla fine siamo rimasti delusi. Nella nostra mente, è come se Dybala non fosse riuscito a darci qualcosa che ci doveva. O, quantomeno, non nella quantità/qualità che ci aspettavamo. Che davamo per scontate.

Non siamo nel contesto adatto per riaprire l’infinito e noioso dibattito sulla responsabilità morale dei calciatori rispetto a ciò che pensano i loro tifosi, quindi non lo faremo. È più interessante, molto più interessante, analizzare un altro aspetto della questione: se ci siamo innamorati immediatamente e perdutamente di Paulo Dybala e lui poi ha tradito la fiducia che avevamo riposto in lui, perché abbiamo continuato ad amarlo? È bastata la percezione del suo enorme talento, anche se intermittente e a volte solo potenziale, a fare in modo che non lo ripudiassimo mai del tutto? Che continuassimo ad aspettarlo e/o a essere incazzati per la sua discontinuità? Sì, è chiaramente così. Per tanti motivi.

Il primo, molto semplicemente, va ricercato nel rapporto fondamentalmente primitivo che abbiamo col calcio: per quanto cerchiamo di razionalizzarlo, ed è un discorso valido per chi lo pratica come per chi lo racconta, il calcio resta un gioco deciso dall’imprevedibilità e dalle intuizioni geniali, dalle qualità superiori di chi va in campo. E allora chi addomestica e calcia la palla come Dybala, chi sembra avere la facoltà di attraversare i corpi degli avversari senza perdere il controllo della sfera, chi ha la classe per indirizzare e decidere da solo una partita, come dire, ha sempre un po’ di crediti bonus rispetto agli altri.

E poi c’è un altro aspetto, strettamente connesso a quanto abbiamo già detto, che forse andrebbe considerato: il calcio è fatto di risultati e di albi d’oro e quindi di numeri, però va anche ricordato che questi numeri si determinano al termine di partite che durano 90 minuti, in cui succedono molte cose, in cui alcuni ragazzi/uomini compiono delle giocate che lasciano attoniti, per quanto sono difficili ed esteticamente appaganti. Giocate che restano incredibili anche se non portano a un gol, che riempiono gli occhi e le menti e i cuori anche se alla fine le vittorie e i trofei non arrivano. E che in qualche modo sono il senso ultimo di questo sport.

Nei suoi sette anni alla Juventus, dal 2015 al 2022, Paulo Dybala ha messo insieme 293 presenze e 115 gol in tutte le competizioni (Marco Bertorello/AFP via Getty Images)

Ecco, questa è la risposta a tutti gli interrogativi, a tutti i dubbi: magari Paulo Dybala non è diventato il miglior emulo o l’erede di Messi, magari ha vinto meno di quanto ci aspettavamo, ma ha passato la sua intera carriera a ricordarci quanto può essere può essere soddisfacente, proprio dal punto di vista estetico, seguire una partita di calcio. Guardando Dybala in campo, e ora citeremo due giocate meravigliose e insignificanti proprio per dare forza alla nostra visione, ci siamo resi conto di quanto sia sexy uno stop che di fatto sgonfia un pallone arrivato a campanile, anche se effettuato a centrocampo. E di quanto anche un gol sbagliato, in fondo, possa essere meraviglioso.

E allora forse dovremmo rivedere le nostre posizioni iniziali: una carriera meno sfolgorante del previsto non è per forza un dramma che affoga nei rimpianti. A maggior ragione se la carriera in questione ha regalato momenti di meraviglia assoluta, per quanto sparsi. Col pallone tra i piedi, nelle partite buone, Paulo Dybala ci ha ricordato e ci ricorda quanto può essere bello il calcio, e questa sua facoltà è l’esatto contrario dell’incompiutezza. È un modo per preservare lo spirito del gioco, per renderlo eterno. Per difenderlo da chi sta fuori, ovvero da noi, dalle nostre esagerazioni, dalle nostre frustrazioni. Dal nostro nichilismo.