Perché a Paulo Dybala non viene perdonato nulla?

È un grande calciatore, ma forse non è sempre stato all'altezza del futuro che avevamo immaginato per lui.

La rete di Caicedo al 94’ di Lazio-Juventus ha ricordato in qualche modo quella realizzata da Thomas Müller il 16 marzo 2016, nel ritorno degli ottavi di finale di Champions League, un altro trauma della storia recente della squadra bianconera, sempre vissuto nei minuti di recupero di una partita importante e ben giocata – anche se la gara contro il Bayern Monaco era molto più importante rispetto a quella contro la Lazio. All’Allianz Arena, quella sera, una serie di piccoli errori individuali (e le tante occasioni per lo 0-3 non concretizzate) si fusero, generando un unico grande errore collettivo. Allora la caccia al colpevole si era risolta nell’individuazione di un responsabile unico: Patrice Evra, che invece di buttare via un pallone recuperato nei pressi della propria area, provò a mantenere il possesso ma finì per cederlo agli avversari.

All’Olimpico – curiosamente lo stadio in cui ha segnato uno dei gol più importanti della sua carriera, un gol decisivo per la conquista dello scudetto 2017/18 – la stessa sorte è toccata a Paulo Dybala. L’argentino è stato indicato come colpevole numero uno di quanto accaduto negli istanti finali della gara, perché non è riuscito a controllare e a portare lontano un pallone appena recuperato da Weston McKennie, sigillando così una vittoria che sembrava ormai cosa fatta per la squadra di Andrea Pirlo.

In realtà, come si vede nel video, quello di Dybala è solo il primo di una serie di errori a catena: Cuadrado si perde Correa consentendogli di girarsi dopo una ricezione comoda; Bentancur si fa saltare troppo facilmente; Rabiot e Demiral sono troppo passivi per portare un contrasto fisicamente efficace con l’argentino; Bonucci concede a Caicedo una conclusione ravvicinata, seppur spalle alla porta e con il piede teoricamente più debole. Sempre dal video, inoltre si nota la lucidità di Simone Inzaghi: il tecnico della Lazio fa cambiare a Marusic la direzione in cui rimettere in gioco il pallone all’ultimo momento utile, poi dopo succede tutto il resto.

Tutto quello che è successo dopo il controllo sbagliato di Dybala

Nelle ore successive, il fermo immagine di Dybala che incespica sulla palla si è trasformato nella prova regina di un processo social-mediatico che ha impiegato poco tempo ad andare oltre le intenzioni, trascendendo la normale percezione sull’importanza degli episodi del calcio contemporaneo. L’aver associato quel momento a una serie di elementi iconografici deteriori – il laccetto tra i capelli, la presunta richiesta di adeguamento dell’ingaggio, la sua esposizione sui social o la relazione con Oriana Sabatini – è la fotografia delle difficoltà di un intero ambiente a inquadrare quell’errore per ciò che è: un errore tecnico, certamente grave e banale, probabilmente favorito da un momento non ideale dal punto di vista psicologico, ma che nella sua dimensione di campo non è poi tanto diverso dall’errato controllo orientato con cui, nel secondo tempo, Cristiano Ronaldo ha vanificato il quattro contro due creato da uno strappo palla al piede di Kulusevski, una delle tante occasioni create dalla Juventus per portarsi sullo 0-2.

Detto che, dal punto di vista delle conseguenze, le due giocate possono tranquillamente essere ricondotte a due piani di valutazione differenti, la sensazione è che con Dybala si finisca sempre in un ambito ulteriore e non necessario. Quello, cioè, di una presunta inferiorità antropologica e culturale, per cui l’errore è il sintomo di una mancata aderenza a determinate categorie valoriali: Dybala non sbaglia semplicemente un controllo o una giocata, Dybala sbaglia un controllo o una giocata perché non è grintoso, perché non è calcisticamente cattivo, perché non è concentrato, perché non è professionale, perché non ha il giusto “atteggiamento”, qualsiasi cosa significhi questo termine.

Si tratta della naturale conseguenza di una percezione che accompagna Dybala fin da quando è apparso chiaro che non sarebbe mai diventato il “nuovo Messi”. Una narrazione che ha spostato l’attenzione dal campo a tutto ciò che avviene fuori, e che finito con l’alterare le valutazioni di e su Dybala anche dopo la migliore stagione della carriera per cifre raggiunte – 17 gol e 14 assist in 46 presenze nel 2019/2020 – oltre che per qualità e continuità delle prestazioni. Come se l’essere “solo” un grande giocatore e non un fuoriclasse generazionale portasse a sottostimare ciò che è stato e ciò che è Dybala, indipendentemente dalle sue doti, da ciò che sta mostrando ora che si trova – o dovrebbe trovarsi – all’apice tecnico, fisico e psicologico della sua carriera.

Eppure ogni stereotipo narrativo si scontra con la realtà dei fatti ben oltre il dato che lo vede 13esimo marcatore all time della storia juventina, con 96 gol in 234 presenze – negli ultimi trent’anni, considerando le prime cinque stagioni vissute in bianconero, solo Roberto Baggio (115 in 200 gare) ha fatto meglio di lui. Si dice che Dybala non sia mai decisivo quando conta, ma poi si scopre che ha realizzato cinque gol in 16 partite della fase a eliminazione diretta della Champions League, e soltanto Cristiano Ronaldo ha segnato più di lui in queste gare; si sottolinea come la doppietta al Barcellona sia l’eccezione alla regola che lo vuole in gol solo contro squadre medio-piccole quando, in realtà, ha fatto gol al Bayern Monaco, al Tottenham, al Manchester United e all’Atlético Madrid; si racconta di come tutti gli allenatori abbiano faticato a trovargli una collocazione, dimenticando come la stagione da MVP della Serie A sia arrivata nel momento in cui Maurizio Sarri lo ha messo al centro del progetto, chiarendo gli equivoci sulla sua posizione; gli si attribuisce una debolezza mentale di cui non si dovrebbe più parlare nel momento in cui il miglior Dybala si è visto dopo l’estate 2019, un’estate vissuta con la consapevolezza perenne di essere in discussione, oltre che sul mercato.

Dybala ha vinto dieci trofei nella sua esperienza bianconera: cinque scudetti, quattro edizioni della Coppa Italia, tre della Supercoppa Italiana; proprio in Supercoppa, detiene il record di giocatore con più gol segnati nella storia, quattro in sei edizioni disputate (Mike Hewitt/Getty Images)

E, invece, ciò che ricorre è sempre e solo la degenerazione del qui e ora, una sorta di memoria selettiva al contrario e a breve termine che impedisce di accordargli i meriti e la credibilità che dovrebbero appartenere a un giocatore del suo livello. Sembra quasi che per Dybala non esistano alibi, giustificazioni, o anche solo quelle considerazioni di campo che racconterebbero, per esempio, di come il suo ingresso contro la Lazio non avesse senso, soprattutto riscontrando come il piano partita di Pirlo fosse chiaramente improntato all’attacco dello spazio in verticale, a blocchi difensivi bassi e posizionali; o di come contro il Verona, nella prima partita da titolare dopo l’infortunio che gli aveva impedito di disputare il ritorno degli ottavi contro il Lione ad agosto, fosse risultato tra i più continui in campo in quel lavoro di raccordo tra i reparti e rifinitura divenuto indispensabile data la scarsa condizione di Aaron Ramsey – e infatti Dybala ha chiuso la gara contro l’Hellas con 89 palloni giocati, 88% di precisione nei passaggi, tre occasioni create, nove conclusioni tentate e tre dribbling riusciti.

Per tutti questi motivi risulta difficile spiegare perché l’ambiente bianconero, ovviamente quello esterno alla società, non creda più o non creda a sufficienza in Dybala, soprattutto per quanto riguarda ciò che succede in campo. Il suo percorso evolutivo è stato analizzato e raccontato in tutti gli aspetti, i suoi miglioramenti rispetto agli inizi sono evidenti, eppure la questione esiste, e forse riguarda il rapporto tra ciò che è (o non è) in grado di fare e ciò che ci si aspettava da lui nel momento in cui è arrivato alla Juventus. In questi anni Dybala ha più volte dimostrato di saper andare oltre se stesso e i propri limiti, diventando un atleta più completo e incisivo in diversi aspetti del suo gioco, ma questo non è bastato a evitargli una costante sottovalutazione del suo valore, dell’impatto delle sue prestazioni. Probabilmente a Paulo Dybala è stato fatto pesare in maniera eccessiva quel numero 10 indossato da Platini, Baggio e Del Piero, un numero di cui non è stato ritenuto sempre all’altezza, oppure quel paragone improvvido con Messi che non ha onorato compiutamente. Così è diventato il simbolo, suo malgrado, di una speranza incompiuta, delle aspirazioni che tutti noi gli avevamo costruito intorno. Forse non riusciamo a perdonare noi, per tutto questo, e allora non riusciamo a perdonare lui.