Perché la Juventus non può fare a meno di Dybala

È cresciuto dal punto di vista emotivo, inoltre Sarri ha fugato ogni dubbio: l'argentino è una seconda punta.

A un certo punto della gara contro il Sassuolo, sembrava che la Juventus non potesse fare altro che affidarsi a Paulo Dybala per venire a capo di una situazione fattasi improvvisamente complicata. Una percezione condivisa anche dall’ambiente circostante: lo Stadium, per lo più silente fino a quel momento, si è rianimato solo all’ingresso in campo del numero 10 al posto dell’impalpabile Bernardeschi. Come se, fin dall’inizio, tutti fossero in attesa del lampo salvifico del fuoriclasse che avrebbe (ri)messo le cose al loro posto, come se non fosse più questione di se ma di quando. E, in effetti, dopo che l’argentino si era conquistato il rigore del pareggio alla prima accelerazione della sua partita, solo i riflessi di Turati hanno impedito che la sceneggiatura trovasse il suo ideale compimento. Quello, per intenderci, della punizione contro l’Atletico Madrid, della giocata da tre punti contro il Milan, dei due gol in due minuti che hanno ribaltato la Lokomotiv Mosca.

Raccontare l’inizio della quinta stagione di Dybala in bianconero è molto più facile di quanto fosse farlo con le annate precedenti. Esauritisi i dibattiti sul ruolo – le parole di Sarri e i 9 gol e 2 assist in 919 minuti tra campionato e Champions League hanno chiarito che si tratta di una (seconda) punta – e gli inutili e dannosi paragoni con Messi, ci si trova di fronte a un giocatore la cui rinnovata centralità è più emotiva che tecnica e tattica. Pensare, infatti, che il miglioramento esponenziale delle sue prestazioni dipenda solo dal suo agire più vicino alla porta o dall’aver trovato ulteriori riferimenti tra le linee che lo hanno liberato da eccessive incombenze creative a tutto campo, significherebbe sottostimare la portata di quello switch mentale che costituisce il vero elemento di novità del suo status, oltre che il motivo della sua attuale imprescindibilità.

Spesso si è detto e scritto di Dybala in relazione al suo essere più o meno efficace come attaccante, trequartista o esterno d’attacco. Quasi mai, però, ci siamo focalizzati sul Dybala in grado di fare la differenza anche dal punto di vista psicologico e della leadership. Non lo abbiamo fatto perché non l’abbiamo ritenuto in grado di riuscirci o, semplicemente, perché la sua visione della leadership è all’opposto dell’ideale “sangue e arena” incarnato da Chiellini, da Bonucci, talvolta persino da Cristiano Ronaldo. Un cortocircuito filosofico che ha finito con il condizionare la valutazione delle sue prestazioni dell’ultimo anno e mezzo ben al di là dei suoi effettivi demeriti. Tanto da far ritenere che Dybala non fosse all’altezza della Juventus, nonostante 85 gol in 199 presenze e la sua capacità di essere decisivo contro quasi tutte le squadre europee di fascia medio-alta che ha incontrato.

Contro il Barcellona, nella stessa fantastica partita, sono arrivati i due gol più importanti nella carriera di Paulo Dybala

In un’intervista a El País è il diretto interessato a chiarire il concetto: «Credo che il modo di essere leader sia cambiato. Mi sento un giocatore importante, rispettato dai tifosi e dai compagni di squadra, ma non sono un caudillo né cerco di esserlo. Il vero leader deve cercare di trasmettere sempre qualcosa di positivo al gruppo: non è necessario alzare la voce o insultare per essere rispettato. Bisogna capire quando e come parlare a un compagno di squadra o quando non è necessario dire nulla. È importante essere se stessi senza preoccuparsi di dover fare in modo che tutti ti amino».

Un punto di svolta sostanziale e staccato dal racconto di “indesiderato di lusso” che si riscopre indispensabile che lo accomuna a Higuaín. A 26 anni, all’apice del suo prime tecnico, fisico e psicologico, Dybala è un giocatore consapevole di quello che è e che potrà essere e che ha smesso di provare a diventare quello che non è e che non potrà mai diventare: liberarsi dell’immagine affascinante e nociva  di “nuovo Messi” o dell’iconografia del fantasista che deve risolvere le partite da solo sempre e comunque, ha permesso a Dybala di superare quei limiti che spesso si era autoimposto e di costruirsi quella dimensione ideale in cui esprimere le sue qualità. Sarri, a quel punto, non ha dovuto far altro che assecondare delle inclinazioni finalmente naturali, non più forzate e rese più solide da una consapevolezza nei propri mezzi che sembrava smarrita in quel limbo di astrazione e indeterminatezza che è stata la stagione 2018/2019. Quando, per la prima volta dai tempi della stagione d’esordio a Palermo, è andato sotto la doppia cifra di reti segnate in Serie A: «Una cosa è l’umiltà nella vita di tutti i giorni e nel modo di rapportarsi con le persone, un’altra è la fiducia in se stessi. Avere una certa opinione di sé è un fatto positivo perché influenza la fiducia con cui si entra in campo e si pratica uno sport. Non credo di essere il migliore di tutti ma ho fiducia in me stesso e in quello che posso dare alla mia squadra», ha detto Paulo in quella stessa intervista.

Paulo Dybala conta 61 reti in 140 partite di Serie A, tra Juventus e Palermo (Tullio M. Puglia/Getty Images)

Ed è per questo che oggi Dybala è un giocatore molto più influente di quanto raccontino il numero di gol e assist o i dati relativi ai minuti giocati e al suo impiego da titolare o da subentrato. Se Sarri sta continuando ad insistere con un 4-3-1-2 che non sta pagando più i dividendi sperati a causa del calo di Ramsey e Bernardeschi, e della perdurante assenza per infortunio di Douglas Costa, è anche per non dover rinunciare a mettere il suo numero 10 nelle condizioni migliori per poter fare la differenza.

Tanto più in un momento in cui la gestione fisica e mentale di Cristiano Ronaldo si sta rivelando più difficile del previsto: «Se dobbiamo parlare di esplosione per la doppietta, parliamo pure di esplosione», ha detto il tecnico dopo il successo interno contro la Lokomotiv Mosca, «Dybala ha sempre fatto bene come prestazioni ma adesso è in grado di darci un contributo di livello superiore. Che segni o meno, che le sue prestazioni fossero quasi sempre di alto livello era una delle cose su cui nutrivo ben pochi dubbi».

Dal suo arrivo in bianconero, nell’estate 2051, l’attaccante argentino ha vinto nove trofei: quattro scudetti, tre Coppe Italia, due Supercoppe italiane (Marco Bertorello/AFP via Getty Images)

Di fatto, l’argentino è l’unico elemento della rosa bianconera che, in questo momento, è in grado di garantire un appoggio credibile per la risalita del campo per vie centrali, la creatività e la qualità necessaria per la rifinitura nell’ultimo terzo di campo e un apporto realizzativo in linea con le aspettative che accompagnano un giocatore del suo livello. Smentendo anche la percezione, più stereotipata che reale, della sua scarsa incisività nelle occasioni che contano.

Ma continuare a focalizzarsi sulla quantità e sul peso dei gol, sulle heatmap, su quanti palloni tocca in più o in meno rispetto all’anno scorso, sulla zona di campo in cui riceve la palla e sulla circostanza che la riceva spalle o fronte porta, è diventato uno sterile esercizio di stile: Dybala è un giocatore che fa la differenza perché si è convinto di poterla fare con i suoi modi e i suoi tempi, ubbidendo solo alla logica del suo talento e dei suoi istinti e non più ad un’altrui visione ideale che non ha trovato riscontri fattivi e fattuali: «Ho cercato di non perdere la voglia di divertirmi nonostante tutte le responsabilità che si porta dietro il professionismo. Non provo mai a saltare una tappa del mio percorso e non penso a dover fare o non fare qualcosa solo per degli obiettivi da raggiungere. Ho sempre cercato di divertirmi. Alla fine è un gioco, no?»