Le nuove sfide di Ivan Zaytsev

Intervista a uno degli uomini-simbolo dello sport italiano: da pallavolista indoor ha vissuto una grandissima carriera, e ora ha deciso di giocare a beach volley. Un’avventura da vivere senza limiti, come atleta del Sector Team

Rispetto. È una parola che Ivan Zaytsev pronuncia spesso, durante la nostra intervista. Rispetto per il beach volley, la sua nuova sfida professionale, rispetto per la fatica che si fa sul campo di sabbia che lui paragona quasi a quella di uno sport estremo. Rispetto per la sua carriera da pallavolista “tradizionale”, che negli ultimi anni non gli ha dato gli stimoli del passato, ma anche rispetto per chi, come il ct della Nazionale italiana maschile Ferdinando De Giorgi, ha compiuto scelte diverse. Rispetto per i pallavolisti, in generale, ora più tutelati dal punto di vista giuridico. Rispetto dei no, e a parlare è pur sempre un padre di famiglia (ha tre figli) cresciuto negli anni Novanta da genitori sovietici, per giunta entrambi ex sportivi di altissimo livello.

Partiamo dal primo. È circa maggio quando, sul telefono di Zaytsev, arriva un messaggio alle due di notte: «Che ne dici se ci mettiamo a giocare insieme [a beach volley] e proviamo ad andare a vincere il Campionato italiano quest’estate?». Firmato (dalla California): Daniele Lupo, 33 anni, romano, tre volte qualificato per le Olimpiadi nel beach volley e medaglia d’argento con Paolo Nicolai a Rio 2016, sulla spiaggia di Copacabana. Come Zaytsev, 35 anni, che dal 2022 non fa più parte della Nazionale di pallavolo indoor pur avendo vinto, tra le altre cose, due medaglie olimpiche (bronzo a Londra 2012 e argento a Rio 2016) e tre scudetti, anche Lupo non è riuscito ad andare a Parigi 2024.

La lampadina si accende. Zaytsev non è estraneo al mondo del beach volley, è stato campione italiano nel 2008 in coppia con Giorgio Domenghini, un successo che ha replicat quest’anno insieme a Daniele Lupo. E a Undici racconta: «Io d’estate ho sempre avuto l’idea di cercare di giocare a beach volley con costanza, per non fermarmi completamente e per arrivare a un livello più alto possibile. Logicamente non è semplice, perché per fare i tornei del World Tour, il circuito internazionale, devi avere un ranking, e io parto da zero punti. Quindi dovevo cominciare dal Campionato italiano e l’idea di Daniele è stata provvidenziale. Ho colto la palla al balzo e abbiamo subito trovato un’intesa». Un’intesa e un allenatore: Marco Solustri, 65 anni, che Zaytsev definisce «un po’ il Carlo Ancelotti del beach volley».

La preparazione è cominciata ai primi di giugno, ai due non è stata concessa una wild card per partecipare agli Europei di agosto ma l’estate l’hanno trascorsa tra un torneo e l’altro, sempre sulla sabbia. All’inizio di settembre hanno vinto il titolo nazionale. «È un percorso molto stimolante in cui non mi pongo limiti», continua Zaytsev, che fa parte anche del nuovo Sector Team e quindi interpreta al meglio il claim No Limits del marchio italiano di orologi, «è difficile provare ad arrivare ad alti livelli nel beach volley, ma abbiamo grandi obiettivi e stiamo lavorando duro e sodo». Le parole proibite, che poi tanto proibite non sono, sono Los Angeles 2028, sulla scia dello statunitense Karch Kiraly, l’unico giocatore della storia ad aver vinto la medaglia d’oro olimpica sia nella pallavolo indoor sia nel beach volley. «Aleggia un po’ nell’aria questa parola, questo binomio, Los Angeles 2028», prosegue Zaytsev, «fare un’altra Olimpiade, la quarta, per me sarebbe una cosa… bella, molto bella, perché credo che quella di Parigi mi sia stata tra virgolette un po’ negata. Sono stato escluso dalla Nazionale per vecchiaia, ma io, e lo dico senza polemica perché è giusto che il ricambio generazionale venga applicato, vecchio non mi ci sento ancora. Questa è anche una nuova strada, una nuova sfida per uno come me che non si pone limiti. È la volontà di gridare al mondo: guardate che io sto ancora alla grande». Ma il beach volley non è una disciplina semplice. È cambiato rispetto a 15 anni fa, è diventato iper professionale, non è più il buen retiro estivo dei pallavolisti indoor.

Ed è qui che si arriva al primo concetto di rispetto, secondo Zaytsev: «Io nutro un rispetto enorme nei confronti del beach volley, perché correre e saltare soltanto in due per un campo di sabbia di 64 metri quadrati, sabbia che se non stai attento ti arriva fino a metà polpaccio, è una cosa estrema, è uno sport che richiede molti sacrifici sia fisici sia mentali. Non è come nella pallavolo dove magari passi cinque minuti senza toccare la palla perché ci sono anche i tuoi compagni di squadra: qui non puoi permetterti di fare affidamento su nessun altro se non sul tuo unico compagno o su te stesso. Negli ultimi anni il livello è cresciuto tantissimo e le coppie più forti hanno sviluppato questo gioco molto rapido che sembra un due-contro-due sul cemento, senza sabbia, e quindi devi limare ogni dettaglio perché poi tutto viene amplificato dal sole, dal vento, dal caldo o dal freddo. Ma è proprio questo aspetto mentale che mi piace del beach volley: è talmente faticoso che quasi ti fa amare la fatica che provi». È anche una questione di stimoli, insomma. È quel fuoco che arde dentro ogni agonista — e vi sfidiamo a trovare qualcuno più agonista di Ivan Zaytsev, uno capace di annullare due set point agli Stati Uniti d’America (da 22-24) e poi di portare l’Italia a vincere il set e la partita (26-24) con quattro ace consecutivi nelle Final Six di World League del 2014 — ma che in lui si stava un po’ spegnendo, perlomeno nella pallavolo indoor.

«Il beach volley mi ha fatto rinascere, mi è tornato il sorriso», dice, «perché negli ultimi anni sono stato coinvolto in alcune situazioni che sì, stavano spegnendo quella fiamma, o comunque la stavano rendendo più fioca. Personalmente mi sento ancora più forte di molta altra gente. È bello allenarsi con Daniele e soprattutto essere allenati da Marco perché ti segue dalla a alla zeta, non ti fa sgarrare niente, e anche questa è una cosa che avevo un po’ perso con i vari allenatori che ho avuto negli ultimi anni nella pallavolo. Tu sei già grande, grosso e vaccinato, sei forte, hai vinto un sacco di cose e noi non ti dobbiamo insegnare niente, mi dicevano, e io mi sentivo un po’ abbandonato da quel punto di vista. Sentirmi un neofita del beach volley, avere una guida, dei segnali costanti, invece mi fa stare meglio».

Ivan Zaytsev è nato a Spoleto (Perugia) il 2 ottobre 1988, proprio nel giorno in cui suo padre Vjaceslav, palleggiatore sovietico, era in campo nella finale olimpica di Seul contro gli Usa

Di certo però la sua carriera dentro i palazzetti non gliela può togliere nessuno. Anche se Zaytsev, a sorpresa, non firmerebbe per ripeterla. «Non lo so…», ammette, «potevo vincere di più, sicuramente, sono sempre stato molto critico con me stesso e, per le finali che ho giocato, la percentuale di vittorie non è poi così alta. Sono sempre arrivato nelle migliori condizioni possibili, quindi da quel punto di vista non ho rimpianti, ma oggi direi: metterei la firma per rigiocarle tutte, così forse qualcuna in più riuscirei a portarla a casa».

Il riferimento principale, naturalmente, è alla finale olimpica di Rio 2016, Italia sconfitta 3-0 dal Brasile padrone di casa (22-25, 26-28, 24-26) dopo averlo battuto abbastanza agevolmente 3-1 nel girone. «La finale di Rio è allo stesso tempo la mia gioia più grande e la mia maggior delusione», spiega, «lì per lì è stato un grosso rimpianto, la voglia di rigiocarla c’è tuttora, ma c’è anche la bellezza di realizzare, poi, che comunque hai fatto un’impresa straordinaria, un torneo quasi perfetto, anni e anni di sacrifici e allenamenti che ti fanno apprezzare il valore di un argento. Ma ancora oggi sono diviso tra l’oro perso e l’argento vinto». La fiamma dell’agonista, dicevamo. L’anno scorso, in un’intervista rilasciata a Men’s Health, Zaytsev ha detto: «La mia vera soddisfazione forse sarebbe quella di lasciare il mondo della pallavolo in condizioni migliori di come l’ho trovato, una volta che smetterò. Un po’ pretenzioso, faticoso, ma ci si può riuscire».

Ed ecco la terza volta che Zaytsev pronuncia la parola “rispetto” durante i quasi 40 minuti che trascorriamo insieme. A che punto siamo con questo obiettivo? «Ci sono ancora tante cose da fare, tante», risponde, «però una piccola è già stata fatta, cioè la creazione dell’Aip, l’Associazione italiana pallavolisti, con cui siamo finalmente riusciti a far capire l’importanza di avere un’associazione giocatori anche per i ragazzi più giovani che si avvicinano alla Serie A. E poi, anche grazie agli interventi in Parlamento dell’ex ct della Nazionale italiana maschile Mauro Berruto (con cui Zaytsev ha più volte discusso in passato, perdendo anche il posto in squadra a causa di un coprifuoco non rispettato durante un torneo in Brasile, nel 2015, ndr) lo sport è entrato nella Costituzione, siamo riusciti a diventare semiprofessionisti, e quindi abbiamo maggiori tutele dal punto di vista giuridico. Prima eravamo assolutamente dei dilettanti e alcune società facevano un po’ come pareva a loro senza avere un minimo di rispetto per i giocatori che si impegnavano per quei colori e per i loro tifosi. Alcune chiudevano e non pagavano gli stipendi perché tanto bastava cambiare ragione sociale e aprire l’anno dopo con un nome diverso per evitare una causa in tribunale. È già qualcosa».

Il padre di Zaytsev, Vjaceslav, morto a 70 anni nel giugno del 2023, è stato anche lui un pallavolista, medaglia d’oro con l’Urss alle Olimpiadi di Mosca 1980. Il 2 ottobre del 1988, esattamente il giorno della nascita di Ivan, non si trovava all’ospedale di Spoleto ma era in campo a Seul nella finale olimpica persa proprio contro gli Stati Uniti di Kiraly. La madre, Irina Pozdnjakova, a 13 anni ha vinto una medaglia d’argento agli Europei di nuoto, nei 200 rana. L’educazione sovietica è stata anche un peso per Zaytsev, lui non l’ha mai nascosto, ma ora che è diventato a sua volta genitore (insieme alla moglie Ashling Sirocchi, sposata nel 2013 a Roma) conclude: «Quella mentalità mi aiuta oggi nei confronti dei miei figli, cerco anche di insegnare loro ad apprezzare o comunque capire un “no” come risposta. Vedo che è molto facile al giorno d’oggi, in cui siamo sempre di corsa, dire sempre “sì”, “sì”, “sì” ai figli, perché secondo me in questo momento molti genitori non hanno proprio il tempo, la pazienza e la forza mentale per cercare di educare i propri figli al rispetto del no. Invece bisognerebbe starci molto più attenti». Ancora il rispetto: ace numero quattro, come quella volta là contro gli Usa.

Da Undici n° 58
Foto di Rachele Daminelli