Il calciomercato è la provincia dei sognatori, il calcio è quella dei realisti, e Claudio Lotito è più realista del re. Per i tifosi e per il presidente della Lazio non deve essere facile rivivere ogni estate la stessa estate, quella dello scontento all’idea di tutto quello che si potrebbe fare se solo si avessero tutti i soldi del mondo. I tifosi sono sognatori e vivono soprattutto d’estate, quando i sogni son pretese: ciò che si desidera diventa ciò che serve, e tutto ciò che si frappone tra sé e la soddisfazione della necessità diventa insopportabile. Dal canto suo, Lotito ormai dovrebbe averci fatto il callo ma, dal modo in cui vive ogni estate della sua vita da quando è diventato presidente, viene da pensare che passi tre stagioni dell’anno a grattugiarselo, quel callo, in modo da ricominciare ogni volta dal punto di partenza l’estate successiva, deliziato all’idea di essere nuovamente, eternamente crocefisso. Ogni bella stagione la potremmo segnare con una battuta piccata di Lotito nei confronti di quelli che ancora insistono a chiamarlo Lotirchio, e l’estate appena passata non ha fatto eccezione.
Ai tifosi che a trattative appena aperte lo punzecchiavano usando il nome di Mason Greenwood, all’inizio Lotito rispondeva dicendo che fino a quel momento del calciomercato (non avanzatissimo, il calendario era al 15 luglio) la Lazio aveva fatto sei acquisti e speso più della Juventus. Il messaggio era chiaro, il metodo noto: la Lazio opera sul calciomercato con un approccio spesso quantitativo più che qualitativo – un giocatore di cui nessuno sa nulla può sempre rivelarsi quello di cui tu avevi capito tutto prima di tutti, se il rischio paga il genio sei tu, se no il perdente è lui – in modo che il bicchiere si possa sempre e comunque definire mezzo pieno più che mezzo vuoto. Sei acquisti già fatti e già spesa una cifra superiore a quella spesa dalla Juventus, diceva Lotito. Ma la Juventus il suo mercato manco l’ha cominciato, dicevano i critici (e avevano ragione), il tuo è quasi già finito (e anche su questo avevano ragione), rispondevano a Lotito. Quindi, almeno questo Greenwood lo prendi? A quel punto Lotito perde la pazienza, e l’uomo è di quelli che dà il meglio di sé sotto esasperazione: «Greenwood? Se i tifosi lo vogliono mettano i soldi». Chi lo avrebbe mai detto che avremmo assistito anche alla conversione di Claudio Lotito al collettivismo.
Per tifosi come quelli della Lazio e per presidenti come Lotito, l’estate è la stagione dello scontento, come si diceva prima. Il mercato degli altri è sempre troppo ricco, quello proprio sempre troppo povero: da vent’anni, non c’è stato un anno in cui non si siano sentiti sempre gli stessi malumori attorno al mercato della Lazio, anche attorno a quelli che poi hanno fatto le fortune della società. Si potrebbe scrivere molto su quanto dolore contenga lo spazio che separa l’idea che i tifosi hanno della loro squadra dalla realtà fatta di fatturati, plusvalenze, rendicontazioni in cui la squadra deve vivere.
“Non vendo sogni ma solide realtà” è uno degli slogan più amati e più usati da Lotito, dove solide realtà sta per dura verità: se la vita dà i limoni tocca fare una limonata, e se non quella stessa vita non concede nemmeno il minimo lusso di un cucchiaino di zucchero, la limonata tocca mandarla giù in tutta la sua asprezza. Quindi niente Greenwood, niente da fare. A quel punto resta soltanto una scelta, al tifoso della Lazio: credere a Lotito quando annuncia che prenderà un giocatore dieci volte più forte di Greenwood, e sperare che questo giocatore sia tra quelli che poi, alla chiusura del calciomercato, ha effettivamente preso. Sarà Noslin? Sarà Dia? Sarà Nuno Tavares?
La cosa che rende i calciomercati della Lazio diversi da quelli di quasi tutte le altre squadre della Serie A è che sono proprio come la limonata: quasi mai se ne ha voglia, quasi mai se ne ordina o compra una, ma quando capita di berla si riscopre che la limonata è proprio buona. Merito di chi, vallo a sapere? Del contadino che i limoni li ha coltivati? Della persona che li ha spremuti e ne ha mescolato il succo e ha aggiunto questa o quella spezia per insaporirla? Merito dell’afa che fa sembrare gustoso qualsiasi nutrimento in forma liquida? Vallo a sapere, ma per il mercato della Lazio vale lo stesso discorso e ci si potrebbe porre le stesse domande. Nessun tifoso, si può affermare con ragionevole certezza, articolando il suo calciomercato ideale stilerebbe un elenco composto da Tijjani Noslin, Loum Tchaouna, Cristobal Munoz Lopez, Fisayo Dele-Bashiru, Nuno Tavares, Gaetano Castrovilli, Boulaye Dia e Samuel Gigot. Eppure, Eppure, nella limonata fatta con questi limoni ci sono già i cinque gol segnati da Dia (quasi uno ogni cento minuti giocati), i cinque assist in 424 minuti di Tavares, il gol di Noslin, la grande prestazione di Dele-Bashiru all’esordio in Europa League, contro la Dinamo Kiev.

Di nuovo, di chi è il merito? Viene facile rispondere che è tutto di Marco Baroni, perché una delle poche leggi universali del calcio è che tutti i calciatori sono forti quanto gli allenatori permettono loro di esserlo (vi ricordate come si parlava, o meglio, non si parlava di Retegui fino a un attimo prima che si scoprisse che il suo nuovo allenatore sarebbe stato Gian Piero Gasperini?). Ma nel calcio moderno le riduzioni a uno – dei pregi e dei difetti, dei meriti e delle colpe – raramente sono la verità. Sicuramente una parte notevole di merito ce l’ha il direttore sportivo Angelo Fabiani, se non per l’intuito mercantilistico quantomeno per l’intraprendenza retorica. Nella stessa conferenza stampa in cui ribadiva che la Lazio i soldi per Greenwood (il calciomercato vive di tormentoni assai più dell’industria musicale) li aveva messi – 24 milioni, addirittura – il ds biancoceleste si lanciava in una sottovalutatissima definizione del profilo tecnico di Gigot: «È un incrocio tra Cannavaro e Gentile». Una dichiarazione sentita e subito dimenticata, come gli aggettivi che l’oste usa per definire il vino della casa.
Ma forse il migliore calciomercato possibile è fatto di convinzioni: che Dia alla fine si dimostri dieci volte più forte di Greenwood e che Gigot sia davvero un incrocio tra Cannavaro e Gentile. Se poi le cose dovessero andare male, la cosa peggiore che può succedere è che Dia non sia davvero dieci volte più forte di Greenwood e che Gigot ovviamente non è un incrocio tra Cannavaro e Gentile. Ma di chi è la colpa, nel caso? Dell’oste che esagera vendendo il suo vino o del cliente che lo prende sul serio?
Il mercato della Lazio, ogni anno, esiste in questo proprio in questo spazio, nella distanza spesso cortissima tra la scommessa vinta e quella persa, nella speranza che i limoni che la vita concede siano almeno succosi e che il vino dell’oste sia buono come dice l’oste. O, detta alla maniera preferita dal suo presidente, che tra i sogni e la solida realtà non ci siano tutti questi gradi di separazione.