Jake Paul è un idiota che ha avuto la fortuna di nascere nell’epoca in cui l’idiozia è merce. Nemmeno una merce qualunque ma una altamente richiesta, facilmente vendibile, estremamente remunerativa. Attorno a questa consapevolezza, Paul e altri hanno avuto la capacità di costruire un mercato nuovo e di chiamarlo in una maniera che ci facesse dimenticare che sempre di compravendita di idiozia si trattava: influencer economy, questo ci siamo ridotti a dire per non dirci che l’umana civiltà è avanzata al punto tale che l’idiozia non è più una condizione dalla quale affrancarsi ma una fortuna da desiderare. E in effetti, chiunque desidererebbe essere Jake Paul: secondo Celebrity Net Worth, Paul possiede un patrimonio di 80 milioni di dollari tra beni mobili e immobili, compresa una Ferrari 296 GTB da 330 mila dollari che ha ricevuto dopo essere rimasto 18 mesi in lista d’attesa e che ha rotto dopo nemmeno 24 ore dalla consegna.
Nella sua breve vita – ha 27 anni – Paul ha fatto talmente tanti soldi da non sapere che farsene: un idiota che non sa che farsene dei soldi diventa inevitabilmente un idiota che non sa che farsene di se stesso. Per dare un senso a una storia che un senso non ce l’ha, nel 2018 Paul decide di iniziare a boxare. Essendo quello che già numerose volta abbiamo detto è (un idiota), non pratica uno sport con le modeste ambizioni che tutti hanno quando iniziano a praticare uno sport: migliorare piano piano, stare in salute, fare amicizie. No, lui decide che non soltanto farà boxe ma sarà pugile. È abbastanza ricco e famoso da essere preso sul serio da uno sport alla disperata ricerca di rilevanza. Paul si sceglie il ring name “The Problem Child”, organizza incontri contro fratelli minori di colleghi youtuber (la sua prima vittoria è del 2018, anno in cui batte Deji, fratellino di KSI, quest’ultimo altro esponente di quel tristissimo movimento ribattezzato influencer boxing), youtuber figli unici (AnEsonGib), fenomeni da baraccone come l’ex NBA Nate Robinson, lottatori Mma più o meno in attività. Mette assieme un record di dodici vittorie e una sconfitta, otto volte manda KO l’avversario, perde soltanto contro Tommy Fury, per split decision. Paul si convince che il suo destino è diventare “world boxing champion”, qualsiasi cosa questo titolo voglia dire. Soprattutto, il mondo della boxe, quella parte del mondo della boxe che è un’industria in crisi, si convince che Paul ha ragione quando si definisce il “money man”. Stando alle stime più al ribasso, quando va male i suoi incontri generano ricavi per 60 milioni di dollari almeno.
È l’influencer economy, è la celebrità di internet, lo sappiamo come funziona. Uno come Paul vive di rilanci, prospera nell’escalation, trionfa nell’apocalisse: nel momento in cui decide di accogliere al suo interno il Problem Child, il mondo della boxe magari non sa che gli influencer finiscono sempre per diventare più grandi della piattaforma che ne trasmette le prodezze, sempre più grandi, fino a che la piattaforma diventa troppo piccola e l’unica possibilità che resta è saltare su un’altra piattaforma. Per Paul il ring è come YouTube, anche se dovesse applicare al pugilato il massimo sforzo che la sua natura gli permette, il risultato sarebbe sempre la baracconata, la messinscena, la farsa. È così che Paul ha conosciuto il mondo ed è per questo che il mondo ha premiato Paul. E sarebbe andato tutto bene, non sarebbe importato niente a nessuno, se solo Paul non avesse deciso di coinvolgere nel suo boxing circus Mike Tyson. E non soltanto: di mettere in mezzo Netflix, convincendo la piattaforma a imbarcarsi in un’impresa al di là delle sue possibilità (pensate quindi di che impresa stiamo parlando), un evento in diretta che tutti sapevano sarebbe stato seguito abbastanza da far sembrare i click day della pubblica amministrazione operazioni riuscitissime. E ancora: Paul ha convinto una leggenda dello sport – non di uno sport, dello sport tutto – a tornare sul ring a 58 anni, 20 anni dopo il suo ultimo match, offrendogli una cifra che solo gli idioti, pardon, gli influencer, possono permettersi oggigiorno. Venti milioni di dollari, tanto si sarebbe messo in tasca Iron Mike secondo gli indiscreti. «Ti do altri cinque milioni se riesci a rimanere in piedi dopo il quarto round», lo ha stuzzicato Paul. Tyson il match lo ha portato a termine, otto riprese da due minuti ciascuna. Ha perso ai punti, per decisione unanime dei giudici.
Bisogna sempre diffidare da chi insiste affinché gli sport siano considerati arti. Carmelo Bene diceva che il sinistro di Maradona è arte e che la volée di rovescio di Edberg è arte, ma appunto: Carmelo Bene era uno a cui importava solo dell’arte, niente dello sport, quindi bisogna sempre diffidare, in questo caso soprattutto di quelli che pomposamente chiamano la boxe “nobile arte”. Ma non ci si può nemmeno arrendere all’equivalenza tra lo sport e l’entertainment, alla trasformazione dello sport in contenuto. Perché se è vero che everything is content, è vero anche che lo sport è una cosa e basta, quella cosa e basta, è se stesso. Un palcoscenico e un ring sono spazi diversi in cui dovrebbero manifestarsi parti diverse dell’esperienza umana. Se nel futuro lo sport esisterà ancora sarà come luogo protetto, come oasi felice, un punto nello spazio-tempo in cui le regole valgono ancora, in cui i princìpi fondativi si rispettano sempre. Un fazzoletto di esistenza in cui le cose hanno ancora senso in sé, in mezzo a un mondo semiapocalittico in cui niente è davvero comprensibile. La ragione per cui Jake Paul vs Mike Tyson ha fatto arrabbiare (deprimere, sarebbe meglio dire) così tante persone è questa: perché è la rappresentazione dell’orrendo mondo fuori, e delle sue armate delle tenebre, che vengono a prendersi anche quei pochi spazi “di senso” che restano. È il presagio di sfortuna, la visione della fine dello sport. Se tutto è content, tutto è monetizzabile e tutto è in vendita. Tyson ha perso nel momento in cui ha detto che era sicuro di vincere perché lui è un pugile e l’altro, per quanto si potesse sforzare, sarebbe rimasto sempre uno youtuber. Non aveva capito, Mike, come forse non avevamo capito davvero noi fino al gong finale, che Paul avrebbe vinto esattamente per questo: perché è uno youtuber e questa è la sua epoca.
Non aveva nessun senso permettere a un uomo di 58 anni, un nonno nel senso letterale della parola, di combattere contro un ragazzo di 27 anni. Non aveva nessun senso fare di questo match addirittura un match ufficiale, pugilato in tutto e per tutto. Non aveva nessun senso aspettarsi che per Tyson le cose andassero diversamente da come sono andate: uno spettacolo triste prima che indecoroso, le gambe che si muovono male e a malapena, le statistiche che dicono 97 pugni tirati in tutto e solo il 18 per cento andato a segno, buona parte tra primo e secondo round, quando il fiato nei polmoni ancora c’era. Non aveva nessun senso aspettarsi un incontro che non fosse implicitamente scripted, perché i rischi di un incontro vero erano troppo alti e gravi. Per Tyson. Dopo l’incontro, il fu Iron Mike ha rivelato che a giugno è quasi morto a causa di un ulcera: ha perso metà del sangue che aveva in corpo, ha dovuto fare otto trasfusioni, ha perso 11 kili. Non aveva nessun senso combattere, a maggior ragione. Soprattutto se davvero questo contro Paul passerà alla storia come il suo ultimo incontro. Tyson ha detto che lo ha fatto perché voleva far vedere ai suoi nipoti perché il nonno è tanto famoso in tutto il mondo. Confidiamo nel fatto che i nipoti abbiano accesso a YouTube e possano recuperare la leggenda e, se hanno assistito, si dimentichino in fretta della barzelletta dell’altra notte. Della diretta Netflix che si blocca proprio nel momento in cui Tyson finisce l’intervista pre match, si volta e la telecamera si fissa sui suoi glutei scoperti. Del ceffone piazzato sul volto di Paul nel face off, che poi si scoprirà essere causato non da eccesso di adrenalina ma dalla scarpa dell’avversario finitagli per sbaglio sopra il ditone del piede. Del call out a fine match, uno sconfitto Iron Mike che prova a sfidare Logan Paul, fratello di Jake, boxer pure lui, metà più scema di questa coppia scemo e più scemo. «Ma scherzi, t’ammezzerei, Mike», la risposta di Logan.
L’incontro condensato in tre minuti scarsi
Eppure siamo stati tutti lì a guardare e ora siamo tutti qui a parlarne. Durante lo scorso fine settimana i social erano pieni di ricevute dei centri scommesse che attestavano l’avvenuta puntata sul Iron Mike o sul Problem Child. Video reaction di gente che si era giocata tutto sull’uno o sull’altro sono state il comic relief collettivo delle scorse 48 ore. Le celebrity maggiori e minori hanno tutte commentato, e i meme hanno ironizzato sul fatto che se Jake Paul vuole proseguire con la sua striscia positiva la prossima volta dovrebbe combattere contro il 62enne Evander Holyfield. Il content, d’altronde, è negli occhi di chi guarda, l’entertainment è sempre più attorno all’evento che dentro all’evento, nei prodotti residuali che senza quell’evento non esisterebbero (documentari sul pre e il post, meme, commenti estasiati o, come questo, avviliti).
Di Jake Paul vs Mike Tyson resterà sicuramente il valore sperimentale, la prova provata che dal punto di vista commerciale e mediatico lo sport ormai può fare a meno di se stesso: un incontro di boxe non ha bisogno necessariamente di essere Mayweather vs Pacquiao per essere un successo. Anche Mayweather vs McGregor, che già aveva abbondanti dosi di baracconata tra i suoi ingredienti, è troppo. A lungo abbiamo chiesto che lo sport smettesse di essere un piccolo mondo antico e chiuso, abbiamo sperato che si aprisse al mondo vero e moderno che cambiava velocissimamente subito al di là sei suoi confini. Ecco, alla fine il mondo vero e moderno è arrivato. Sarà un caso, ma dopo aver assistito anche lui all’incontro tra Paul e Tyson, iShowSpeed ha detto che vuole partecipare alla gara dei cento metri piani alle Olimpiadi di Los Angeles 2028. Buon futuro a tutti.