Robin Gosens non è un calciatore come tutti gli altri

Le sue parole sulla salute mentale, e non solo, sono sempre importanti. Soprattutto in questo momento storico.

L’aggettivo “mentale” viene usato molto spesso nel discorso calcistico, ma quasi mai attaccato all’unica parola alla quale andrebbe attaccato: salute. La mente è solo un altro dei campi in cui si gioca la partita, un altro spazio in cui si svolge la performance, un altro momento in cui offrire una prestazione. Abituati come siamo ad ammirare i corpi-fortezza, la carne-macchina dei calciatori, è difficile immaginare che la loro mente abbia forme, fattezze diverse. È una difficoltà che precede l’invenzione del calcio di diverse migliaia di anni, questa: nella storia dell’umanità, forse non c’è massima che abbia fatto più danni della latina mens sana in corpore sano. Davvero un corpo fatto a immagine e somiglianza della perfezione può contenere altro che perfezione? È questa la domanda che ci facciamo ogni volta che osserviamo o conosciamo o immaginiamo il disallineamento tra il corpo e la mente di un calciatore (di uno sportivo in generale): mens sana in corpore sano, no? Ancora di più se quel corpo sano è pagato per essere tale: è suo dovere assicurarsi che sia davvero così, nella carne e nello spirito. E ancora di più se quel corpo sano è necessario alla nostra soddisfazione: non possiamo accettare che una cosa come la mente, che non si tocca o si conta o si compra, si frapponga tra noi e la gioia che la vittoria sportiva ci sa dare. 

Per tutte queste ragioni, e per tantissime altre, «nel calcio e nella società i problemi mentali sono un tabù». Lo ha detto Robin Gosens in una delle pochissime interviste a un calciatore di cui sia mai valsa davvero la pena parlare. A Cronache di spogliatoio – l’intervista la trovate qui – Gosens ha parlato di salute mentale, cioè di malattia mentale: la banalissima e sincerissima ammissione che un corpo sano possa contenere una mente ammalata ha fatto di Gosens una notizia da prima pagina. A questo stiamo, nel discorso sulla salute mentale nel calcio in Italia (nello sport in generale e nel resto del mondo non è che vada tanto meglio, ma va comunque meglio di così).

Gosens ha una laurea in Psicologia, quando avrà smesso di fare il calciatore vuole diventare uno psicologo dello sport: ogni squadra dovrebbe averne almeno uno e ogni calciatore dovrebbe andare a parlarci almeno una volta, sostiene Gosens, come ha fatto lui quando, durante la sua stagione all’Union Berlin, si è reso conto che le cose andavano male in campo e anche peggio a casa, perché la sua famiglia a Berlino stava male. E peggio andavano le cose a casa, tanto peggio andavano in campo e viceversa, in un infinito e malevolo circolo. La ragione è semplice, talmente semplice che possiamo ridurre anche questa a una massima. Stavolta è in lingua inglese e dei tempi moderni, l’ha detta Morpheus nel primo film della trilogia di Matrix: «Il corpo non può vivere senza la mente».

Facciamo un test: se pensate a un calciatore che piange, cosa vi viene in mente? Sicuramente il campo, lo stadio, la sconfitta, un trofeo perso. D’altronde i calciatori per noi sono questo: attori che mettono in scena una recita, protagonisti di un potente spettacolo. Che vita interiore possono avere, al di fuori, al di là del calcio? Il fatto che le parole di Gosens abbiano colpito, nel senso di sorpreso, così tante persone dovrebbe farci riflettere su quanto bene, e quanto facile, ci venga oggettificare i giocatori. Giocatori, appunto, non giocattoli, ma la differenza si sta facendo sempre più difficile da percepire e soprattutto da accettare. Gosens ha raccontato di essersi messo a piangere quando ha saputo di non essere stato convocato dalla Nazionale tedesca per gli Europei in Germania: un calciatore di mestiere che piange da solo, nella sua casa, perché ha perso la possibilità di giocare, quindi di lavorare, ancora un po’.

La parte più interessante – e anche toccante – del discorso di Gosens è proprio questa: esiste la malattia mentale, certo, e va curata con gli strumenti che la medicina possiede. Ma esiste anche, semplicemente, l’umana fragilità, le imperfezioni, le incomprensioni, e per queste non servono cure ma accettazione. I calciatori hanno corpi perfetti, sono belli, ricchi, famosi, vivono in case grandi e guidano macchine veloci e fanno vacanze così belle che le loro gallery finiscono sulle homepage: embè? Quegli stessi calciatori capita che tornino a casa e piangano, da soli. Anche perché, in quale altro momento, in quale altro luogo possono farlo? Nella vita dei calciatori spesso non c’è uno spazio, inteso come momento e come luogo, appunto, in cui farlo: un colloquio con uno psicologo può diventare un rischio personale e professionale. Chi lo sa quanti gradi di separazione ci sono tra noi e Fabrizio Corona, chi può dire quando e come le faccende private di una persona possono diventare merce e notizia. Un calciatore può essere sicuro di come i suoi compagni, il suo allenatore, i suoi dirigenti, il suo presidente prenderanno la notizia di un colloquio con lo psicologo?

Robin Gosens è arrivato in Italia nel 2017, a scovarlo (in Eredivisie, nell’Heracles) è l’Atalanta. Nel gennaio 2022 passa all’Inter, un anno e mezzo dopo torna in Germania, all’Union Berlin. Da agosto scorso gioca nella Fiorentina (Pier Marco Tacca/Getty Images)

Se esiste il detto “anche i ricchi piangono” una ragione deve pur esserci. Sia chiaro: i soldi curano, perché badare alla propria salute mentale costa e pure tanto (non a caso in Italia ci siamo dovuti inventare il Bonus Psicologo). Ma la ricchezza non costituisce immunità, a certe malattie siamo potenzialmente tutti esposti, quindi è inutile – oltre che stupido – chiedersi ogni volta com’è possibile che uno che ogni mese riceve bonifici a sei cifre si dica infelice. I calciatori, poi, non hanno il privilegio della riservatezza, il loro luxury è tutt’altro che quiet: con la fama vengono le infamie. È un altro dei punti più interessanti toccati da Gosens nei suoi discorsi sulla salute mentale: essere un calciatore oggi è più difficile che mai. Il Twitter calcio ci fa ridere certo, a noi che non siamo calciatori. Ma immaginiamo anche solo per un attimo di essere il meme della settimana, l’oggetto di ogni battuta, il bersaglio di ogni insulto. E poi espandiamo questa immaginazione a tutte i mezzi di comunicazione esistenti, digitali e analogici, i giornali, le radio, le tv, i cori allo stadio.

Nella leggendaria puntata dei Simpson “Homer alla battuta”, Bart e Lisa rivolgono un coro canzonatorio a Darryl Strawberry, giocatore di baseball professionista, colpevole, secondo Bart e Lisa, di aver rubato il posto da titolare a loro padre nella squadra di softball della centrale nucleare di Springfield (ma mica la cosa è colpa di Strawberry: è il signor Burns, proprietario della centrale, ad aver ingaggiato i più forti giocatori della MLB per assicurarsi la vittoria nella sfida con la squadra di softball della centrale nucleare di Shelbyville). A un certo punto, Lisa rimprovera Bart di essere andato oltre con un coro, di essere stato troppo cattivo. «Sono professionisti, gli scivola addosso», risponde Bart. «Sei una schiappa, Darryl!», grida allora lei, ringalluzzita e rassicurata. L’inquadratura va poi sul volto di Strawberry, in primissimo piano: sta piangendo.

Gosens, alla fine, non ci sta spiegando niente che non potremmo capire da soli, se soltanto avessimo davvero la voglia di farlo. E, tra l’altro, i problemi che Gosens cerca di spiegare si fanno tanto più per i calciatori meno conosciuti e meno ricchi, quindi meno garantiti e tutelati: se tali e tante difficoltà le hanno incontrate delle superstar come Dele Alli, Richarlison e Jadon Sancho, solo per citare tre casi recenti e noti, immaginiamo cosa sia il lavoro, e quindi la vita, di calciatore per chi ancora non è così famoso o tanto affermato. Jeremy Winsten era uno di questi calciatori non così famosi o tanto affermati: giocava da centrale difensivo nell’Academy del Manchester City, voleva diventare Vincent Kompany. Nel 2018, però, si rompe il ginocchio e il suo contratto con il City scade, non viene rinnovato. Due anni dopo, Winsten si suicida. Non sappiamo cosa sia successo in quei due anni. Sappiamo, però, cosa non è successo, ce lo ha raccontato Tyrhys Dolan, il migliore amico di Winsten, anche lui calciatore: Winsten non ha mai parlato con uno psicologo.