LeBron James ha quarant’anni, anche se sembra impossibile

Continuiamo a valutarlo come un giocatore ventenne o trentenne, ed è proprio questo a renderlo unico.

Il 21 febbraio 2003, quattro giorni dopo il suo quarantesimo compleanno, Michael Jordan realizzò 43 punti (18/30 al tiro e 7/8 ai liberi senza prendersi nemmeno una tripla) nella vittoria degli Washington Wizards sui New Jersey Nets, diventando il primo – e finora unico – quarantenne nella storia della NBA a disputare una partita con almeno 40 punti segnati, oltre che il più vecchio di sempre a farlo: «Non mi sento come se avessi 40 anni. Sento, anzi, di poter ancora competere e, in certe notti, di poter competere con i migliori. Il mio impegno e il mio amore per il gioco saranno sempre quelli di quando ero giovane. Il mio corpo potrà anche essere quello di un uomo di 40 anni ma tutto il resto sarà sempre giovane e stasera ne avete avuto una dimostrazione» disse MJ in conferenza stampa. Quella era stata la gara numero 54 della sua ultima stagione da professionista, che avrebbe chiuso a 20 punti di media tirando poco sotto il 45% dal campo.

Domani notte, mentre il resto del mondo starà pensando all’anno che sta per cominciare, il fresco quarantenne LeBron James – che nella top-10 dei giocatori più anziani che hanno realizzato almeno un quarantello in una singola partita ci era entrato l’anno scorso dopo i 40 rifilati ai Thunder nella trasferta di Oklahoma City del 23 dicembre – avrà già la prima occasione per eguagliare His Airness e raggiungere una delle pochissime milestones che ancora manca alla sua collezione. E potrà farlo nella sua Los Angeles contro i suoi Cleveland Cavaliers, a quasi una settimana di distanza dai 31 punti e 10 assist rifilati ai Golden State Warriors nella partita di Natale, in quella che potrebbe essere stata – ma sarà poi vero? – una delle ultime sfide contro Steph Curry: «L’altro giorno ho visto un video di Steph in cui diceva che è normale pensare al ritiro quando si arriva a un certo punto della propria carriera. Non so se avremo altre occasioni di affrontarci nel Christmas Day, così abbiamo fatto un bel regalo ai nostri tifosi» ha detto James alla Espn subito dopo la fine della partita, la ventottesima di un’annata in cui i dati relativi al minutaggio (35 minuti a gara) e alle percentuali al tiro (49,6% dal campo, 35,7% da tre) sono nettamente migliori rispetto alla sua seconda stagione a LA, che si concluse con il titolo vinto nella bolla di Orlando.

Tra le partite e le parole di Jordan e James passano molto più dei vent’anni e delle (almeno) due generazioni di superstar NBA con cui abbiamo misurato la distanza che separa i due più grandi giocatori di sempre. La questione riguarda soprattutto il tempo. O, per meglio dire, il diverso tipo di approccio e di rapporto il tempo, vale a dire con l’unico avversario che non poteva – e non può – essere battuto. Nel caso di Jordan, tornare a giocare dopo il secondo ritiro era la prova tangibile della sua ostinazione, la rappresentazione plastica del lato oscuro di un carisma ineguagliabile che non gli permetteva di accettare che le normali leggi naturali valessero anche per chi, come lui, aveva più volte dimostrato il primato dello spirito sulla materia e della mente su un fisico sempre più logoro; per James, invece, la sua longevità fuori scala non è altro che la diretta conseguenza di una serena accettazione di limiti sempre nuovi e della consapevolezza che gli stessi possono essere ugualmente aggirati cambiando il modo di stare in campo fin quando si ha la necessaria forza mentale per farlo: «Ad essere sinceri non credo che giocherò ancora a lungo: forse un altro anno, forse altri due, non lo so. Di certo non sarò io colui che mancherà di rispetto al basket solo perché voglio continuare a giocare: ho già detto che il momento in cui smetterò non sarà quello in cui le mie ruote saranno completamente sgonfie», ha dichiarato lo scorso 14 novembre, poche ore dopo aver realizzato la terza tripla doppia consecutiva nel giro di cinque giorni (35 punti, 12 rimbalzi e 14 assist) nella vittoria dei Lakers contro i Memphis Grizzlies.

Se Jordan aveva scelto di sfidare apertamente il tempo, James ha invece deciso di farselo amico, di blandirlo arrivando fin quasi ad ingannarlo, come se la foto con il canestrino regalatogli quando non aveva nemmeno tre anni o l’istantanea che lo ritrae mentre entra in campo insieme al figlio Bronny fossero i due ritratti di Dorian Gray che stanno invecchiando al suo posto da qualche parte nella soffitta di una delle tre ville acquistate a Los Angeles, mentre lui continua a essere il miglior giocatore della NBA in senso assoluto. Vale a dire quello che è sempre stato nel corso di una carriera lunga ventun’anni e ventidue stagioni. And counting.

Questi primi 40 anni di LeBron James raccontano, perciò, come e quanto sia cambiata il racconto stesso del grande atleta che si trova a percorrere gli ultimi metri del viale del tramonto. Kobe Bryant, Tom Brady, Roger Federer, Rafael Nadal, Valentino Rossi, Federica Pellegrini: per ciascuno di loro, icone globali in grado di trascendere i rispettivi sport, abbiamo sempre immaginato una lotta furiosa e impari contro l’ineluttabilità del tempo che passa e che incassava tributi sempre più sanguinosi sotto forma di un declinare prima lento ma inesorabile e poi improvviso e verticale, tanto da farci desiderare che quell’addio che continuavano a rimandare arrivasse il prima possibile. Tutto pur di non vederli più ridotti a triste e polveroso simulacro di una grandezza che ormai esisteva solo nei ricordi e nei libri di storia che non avevano voglia di aprire. E anche per LeBron, a un certo punto, avevamo immaginato qualcosa del genere; si trattava solo di capire quando sarebbe arrivato pure per lui il momento di arrendersi all’evidenza, nonostante la sua genetica da predestinato o gli 1,5 milioni di dollari che – si dice – spende ogni anno per continuare a essere The Chosen One. Eravamo tutti lì in attesa, seduti sulla riva di un fiume che era allo stesso tempo reale e metaforico, senza capire che in realtà ci eravamo sbagliati e che ci stavamo ancora sbagliando. Perché James, al contrario di quelli che sono venuti prima – e, presumibilmente, anche di quelli che verranno dopo – di lui, è diventato uno strumento del tempo stesso, la nuova unità di misura di una variante del panta rei di Eraclito per cui lui è il monolito inamovibile e inscalfibile attorno al quale tutto scorre e tutto cambia mentre lui non cambia mai, o quasi. Non c’è più alcuna lotta, non c’è più alcun avversario, non c’è più un Father Time da provare inutilmente a sconfiggere, c’è solo lui e ci siamo noi, in una dimensione dove tutto è in relazione a quanto LeBron James c’è stato, c’è e ci sarà nelle nostre vite, nella nostra quotidianità, nel nostro continuare a rimanere connessi all’universo del basket NBA che magari avrà perso ascolti, fascino e attrattività, ma che è molto più vicino e accessibile di quanto non lo fosse quando lui ha iniziato.

Come Magic e Bird negli anni Ottanta, come Jordan nei Novanta, James ha avuto il compito di traghettare la NBA in una nuova era, quella della multimedialità ad ogni costo. Lo ha fatto e lo sta facendo, pagando anche in prima persona il prezzo dell’infotainment esasperato ed esasperante, ma riuscendo comunque a darci una storia unica nel suo genere, qualcosa di cui parlare, qualcosa da raccontare, qualcosa che valeva la pena seguire dall’inizio alla fine, per quanto quest’ultima sia ancora tutta da scrivere: «Dipende tutto dal mio impegno, dall’amore e dalla passione che ho per il gioco. Forse oggi mi prendo un po’ di tempo libero in più durante la offseason rispetto al passato ma nemmeno più di tanto: essere in grado di giocare tanti minuti nel corso della mia carriera per le tre squadre in cui ho giocato è un aspetto che ho sempre preso molto seriamente. Non è solo una questione legata a ciò che può capitare durante la stagione ma è qualcosa che coinvolge anche te, la tua famiglia, tutto quello che ti perdi mentre i tuoi figli crescono e tu sei lontano da casa» ha detto il 19 dicembre, quando ha superato Kareem Abdul-Jabbar per minuti disputati in regular season (57.471 in 1.517 gare) nel corso della prima di due partite consecutive che i Lakers avrebbero giocato a Sacramento contro i Kings.

LeBron James è uno dei cinque giocatori ad aver vinto il titolo NBA con tre squadre diverse (Miami Heat, Cleveland Cavaliers e Los Angeles Lakers), gli altri sono Robert Horry, John Salley e Danny Green (Patrick Smith/Getty Images)

A un certo punto, durante la diretta su Sportsnet, in sovrimpressione è comparsa una grafica surreale: dal 29 ottobre 2003, giorno del suo debutto ufficiale – 25 punti, 9 assist e 6 rimbalzi, sempre a Sacramento e sempre contro i Kings – LBJ ha trascorso su un parquet Nba l’equivalente di 957 ore, 40 giorni, cinque settimane e mezzo, quasi tre milioni e mezzo di secondi, senza fermarsi mai. È un dato che, più dei record, più del numero di titoli, più delle discussioni sulla sua posizione all’interno di un’ipotetica classifica all time, definisce LeBron James per ciò che è stato e ciò che continua ad essere in un mondo che certe volte è sembrato andargli persino troppo stretto fin da quando aveva 15 anni: il più grande atleta di tutti i tempi dal punto di vista della continuità, ma soprattutto l’elemento distintivo di una generazione nata, cresciuta e invecchiata con lui. E della quale ha incarnato valori e modi di dire e di pensare ben oltre il ruolo, scontato, di principale sportivo di riferimento. Una generazione che si è talmente abituata al suo carattere immanente da dimenticarsi che il LeBron James che continua ad amare e odiare, criticare ed esaltare, ammirare e invidiare, come quando aveva 20 o 30 anni adesso, di anni, ne ha 40. E che non potrà continuare a giocare per sempre, anche se talvolta sembra assurdo immaginare il basket e la NBA di domani senza il LeBron James di oggi.

Ecco, forse è proprio questa la milestone più importante di tutte, il record che difficilmente potrà essere battuto. Essere un quarantenne senza che dal punto di vista del campo e delle prestazioni se ne parli poi così tanto, essere giudicato e valutato come il giocatore che continua a segnare quasi 25 punti a partita nella squadra più famosa del mondo in quella che non è altro che la normalità per uno come lui, da ventuno – quasi ventidue – anni a questa parte. Perché mai come in questo caso l’età è davvero solo un numero. Di certo non un alibi, e nemmeno una scusa.