L’effetto-Ranieri esiste davvero

Il suo arrivo ha già cambiato la stagione della Roma. Ma come impatta sulle sue squadre e sui suoi giocatori? Lo racconta chi ci è passato.

Il raccolto è un pallone sotto il sette, dopo un contropiede da manuale. Sorride, Lorenzo Pellegrini. È una liberazione formato derby. Sorridono tutti, in casa giallorossa. E guardano lui: King Claudio, imperatore a Roma. La panacea, il porto sicuro. Ranieri è l’allenatore che tutti vorrebbero e a cui tutti hanno voluto bene. Ma che nella capitale – a volte non servono i trofei, per fare la storia – trova posto a tavola fra Verdone e Trilussa. «Conosce tutte le strade di quella città, tutte le corde che vanno toccate in questo club», dice a Undici altro Claudio, Marchisio, tra i suoi vecchi discepoli ad altre latitudini. «Ovunque vada porta con sé la sua romanità. Non mi stupisce la ripresa della squadra, ora che c’è lui in panchina». Sarà che, nella stagione in corso, Pellegrini e compagni erano sprofondati in un impensabile abisso. Sarà che di tempo e materia, per far miracoli non ce n’erano: né un ritiro, né una finestra di mercato. Eppure, nonostante i risultati già parlassero per lui – 13 utili su 15 stracittadine in carriera, cinque vittorie su cinque all’Olimpico – Ranieri è riuscito ancora a sorprendere. I suoi tifosi, gli avversari, il calcio tutto. Quanti lieti fine ci vorranno, prima di congedarsi in pace? E soprattutto: quali ingredienti ci sono, dietro chi sa accendere la luce sempre, dove la luce non c’è?

Lo abbiamo chiesto a chi l’ha vissuto da vicino, nell’arco del suo lungo curriculum. Quel che emerge è un doppio motivo ricorrente. Riattivare ambienti col morale sotto i tacchi: Napoli post-Maradona, Juve post-Calciopoli, Roma per tre. E disegnare sogni impossibili: Leicester su tutti, ma non solo. «Firenze, 1993. Me lo ricordo come fosse (Ran)ieri: ci raccolse che eravamo retrocessi, nel giro di due stagioni siamo diventati una delle sette sorelle. A vincere coppe e a dare battaglia nella Serie A più bella di sempre». Daniele Carnasciali era un legionario di quella squadra: 130 presenze nel quadriennio di Sor Claudio sulla panchina del Franchi. «Si vedeva subito che non era uno come gli altri», racconta oggi l’ex difensore. «Un uomo composto, tranquillo, mai sopra le righe. Poi certo, in spogliatoio si faceva sentire. Ma la sua bravura è sempre stata cogliere lo stato d’animo di ciascun suo giocatore: capire chi e quando poteva rendere al massimo oppure no». Era una Fiorentina da antologia. Toldo, Rui Costa, Batistuta. «Eppure lui teneva un rapporto paritario con tutti. Ovvio, a uno come Bati c’era poco da dire: segnava sempre. Davanti a Ranieri però eravamo semplicemente i suoi ragazzi, a prescindere dal peso specifico del singolo. I traguardi sul campo riflettevano un allenatore completo, che già all’epoca sapeva gestire lo spogliatoio come pochi. È difficile parlare male di lui».

Non troviamo nessuno che lo faccia. Più di un decennio dopo, agli antipodi del calcio, Marchisio sembra raccontare sprazzi della stessa storia. «Il mio grande salto lo devo a Ranieri», dice. Ed è vero: con lui in panchina, ha giocato la prima gara in Serie A con la Juventus, la prima di 269 (più altre 89 nelle coppe). «Ero giovane, via con la Nazionale per le Olimpiadi di Pechino. Quell’estate però alla Juve c’erano tanti infortunati. E lui mi richiama in fretta e furia per i preliminari di Champions: debutto così. È un allenatore che non guarda mai la carta d’identità. Non ha problemi a inserire i ragazzi, continua a fidarsi dei veterani: non posso aggiungere altri aggettivi ai suoi risultati». Alla sua persona, invece? «Empatica, equilibrata, serena. Molto attenta ai particolari e ai ragazzi che ha davanti. La base del suo lavoro è sempre stata la coltivazione dei legami umani. Un po’ come Ancelotti: rapporti distesi con tutti, ma quando s’arrabbia s’arrabbia». Talento chiama talento. «La specialità di Ranieri è riuscire a inserire ogni elemento della rosa nella sua filosofia di calcio, dai Primavera ai top player. Ha charme, carisma, eleganza anche nei momenti difficili. Riesce sempre a trovare le vibrazioni giuste, a farsi valere per ribaltare le situazioni più avverse. L’ha dimostrato ogni volta. Guardate la Roma, oggi».

Claudio il taumaturgo. Da capitano discusso, quasi esubero, Pellegrini sta tornando fuoriclasse – e fuori dal mercato. Dybala ha ritrovato il sorriso. Perfino Kouadio Koné, ultimo arrivato a Trigoria, s’illumina e scongiura che il nuovo-vecchio allenatore rimanga qui a oltranza. E si capisce: nel gotha giallorosso c’è una sola persona cresciuta in Curva Sud, allieva di Mazzone, con una personalità tale da sbattere in panchina Totti e De Rossi alla fine del primo tempo in un derby – poi vinto, pure quello – senza mai innescare i malumori di una piazza incline al lamento.

Claudio Ranieri ha guidato per la prima volta una squadra di Serie A, il Cagliari, nella stagione 1990/91; la sua prima stagione da professionista, invece, risale al 1986: l’esordio avvenne sulla panchina della Vigor Lamezia (Allsport UK /Allsport)

«Ho sempre pensato solo al bene della Roma», è il mantra di Ranieri. Impermeabile alla fama, devoto al suo mestiere. Pure fuori dalla capitale, fuori dal professionismo. «Vai, vai, vai», dice di nuovo Carnasciali. «Appena la palla scorreva sulla fascia gridava sempre verso di me: anche in amichevole, anche quando ormai eravamo ex giocatori, per una partita di beneficenza davanti alla Viola dei primi anni Duemila». Vecchie glorie contro Fiorentina. «Ranieri mi incitò pure quel giorno: io lo guardo, gli dico che la testa c’è ma le gambe non vanno più. C’abbiamo riso su. E ci ridiamo ancora, ogni volta che ci rivediamo».

Marchisio invece rispolvera un’impresa da re. «Big match di campionato contro il Milan. Presto si fa male Nedved, uno che non molla mai, costretto al cambio per una botta. Allora il mister decide di mettere dentro De Ceglie: altro giovanissimo. Fece la differenza e siamo andati a vincere 4-2. Ci dava già le responsabilità dei grandi». Oltre ogni immaginazione. «Più di una frase, di lui mi viene in mente un suono: dilly-ding, dilly-dong». A Leicester è scolpito sui muri, «e lui alla Juve però ce lo diceva sempre in allenamento, appena si abbassava l’attenzione. Era il suo campanello, la sua sveglia. E avrebbe fatto la storia». Sor Claudio, 73 anni di realismo con intatto entusiasmo, dice che la sua è all’ultima tappa: “Quando pensi che sia finita, è proprio allora che comincia la salita”. Ma di colpo Roma è in discesa. Ch’è quasi primavera, è l’uomo a farlo sentire alla città. Come in un Rugantino rovesciato.