Eravamo da qualche parte nel post-Covid. Si avvicinava il derby di Milano. Dovevo intervistare quattro star: due dell’Inter e due del Milan, per creare un avvicinamento. Non c’è una regola, ma tendenzialmente per i pezzi di colore si pesca dal grande cesto milanese, perché alle tv costa meno e si è tutti un po’ più abituati. I nomi sono sempre quelli, un po’ triti e ritriti. Se devi intervistare un milanista chiami Diego Abatantuono, Gerry Scotti, Claudio Bisio. Se devi intervistare un interista chiami Paolo Bonolis, Amadeus o Alessandro Cattelan. Noi facemmo Ernia e Massimo Pericolo, perché volevamo due nomi che in quel momento fossero giovani, diversi. E poi? E poi volevamo due nomi senior. Ma strani. Per il Milan facemmo Saturnino. E per l’Inter? Ci pensammo molto, poi l’idea: andiamo da Oliviero Toscani, splendido interista, intellettuale aggressivo. Scrissi alla sua segretaria e accettò a una condizione: anche se il maestro era milanese, dovevamo andare nella sua villa in toscana. Toscani in Toscana: ci piacque. E andammo.
Eravamo da qualche parte in Toscana. Nella Toscana più americana che c’è: quella dei cipressi, delle colline fatte su misura e dell’odore di primavera e Chianti. Seguivamo un’imprecisa posizione su Google Maps come fosse una mappa dei pirati ed entravamo gradualmente dentro a un sogno sempre più verde, sempre più esagerato, sempre più lucido. Guidava Francesco, il mio videomaker. Ad un certo punto ferma la macchina nel nulla, scende, prende la telecamera e si immerge in un prato. Raggiunge dei cavalli. Li accarezza con la telecamera. Lo raggiungo scavalcando la staccionata. C’è un sole enorme, l’aria è buona e mi sembra che qui potrei perdere il senso del tempo. Arriviamo a un maneggio. È il maneggio dei cavalli di Toscani. Ci aveva detto di chiamarlo quando l’avessimo trovato. L’abbiamo trovato e lo chiamiamo. Ci guida a voce su per una collina, fino alla sua villa. Parcheggiamo e ci accolgono due cani iperabbaianti. Poi esce anche lui: ha gli iconici occhiali rossi, una giacca blu e una sciarpa da mezza stagione da fotografo. Sgrida i cani, «Juventini!», e ci fa entrare.
Controintuitivamente, ed essendo in cima ad una collina, per calarsi nel cuore della sua reggia scendiamo una scalinata ripida e stretta. Un ingresso di mattoni, vertiginoso, scuro. «Avanti», ci dice scorbuticamente, alla sua proverbiale maniera, senza curarsi troppo del vademecum dell’ospitalità. Varchiamo il confine della sua intimità casalinga e approdiamo sul suo pianeta: una luce paradisiaca inonda un enorme salotto d’arredamento ricercato, pieno di cianfrusaglie costose e interamente ricoperto di foto dell’artista. Ce ne indica qualcuna: lì c’è “La Marilyn”, come lui chiama Marilyn Monroe, lì c’è “Andy”, come lui chiama Andy Warhol. Vecchi amici immortalati e appesi alle pareti. Lì la campagna per Benetton, lì la campagna contro l’anoressia del 2007. C’è tutto e c’è di tutto e – c’era da aspettarselo – lui ne parla con distacco e leggero menefreghismo. Iniziamo? Chiede rude. E noi iniziamo.
Gli chiediamo se può farsi da solo l’inquadratura, un po’ per ridere e un po’ perché non ci permetteremmo di avere l’ultima parola sulla direzione artistica. Accetta manipolando Francesco, che esegue e sorride. L’intervista dovrebbe essere sull’Inter ma scivola un po’ ovunque: il senso profondo dell’arte, la sofferenza nelle piccole cose degli interisti, Milano, la moda, i giovani pubblicitari e il tema della morte. Non riesco neanche a seguire il filo del discorso che mi ero prefissato – ma con uno così non serve, balliamo e basta. Sentirlo parlare – e parlarci – riempie il mio spirito da intervistatore. È bello non dover cercare delle risposte interessanti ma esserne investito. Eccita il giornalista che sta in me ed emoziona, più genericamente, il me ascoltatore.
Finiamo e ci chiede com’è andata. Poi cosa facciamo. Si interessa all’improvviso alla nostra piccola vita, alla nostra giovane storia. Francesco gli chiede se può fargli delle foto a margine, non per lavoro ma per l’onore di essere lì. Lui si concede e si lascia andare. Mostra la maglia dell’Inter dritta in camera e ci fa una linguaccia. L’esperienza riempie anche Fra che è sempre più frizzante, più incredulo. Poi ci regala un vino a testa: il suo vino. Fa anche il vino, la campagna è tutta sua. Terrò per un po’ la bottiglia e l’aprirò solo all’inaugurazione di casa mia, un anno dopo, con i miei migliori amici. Fra non l’ha ancora aperta e mi ha scritto che vorrebbe farlo ora con me.
Oliviero Toscani ha avuto tre mogli, sei figli e undici nipoti. La sua eredità genetica è un piccolo impero internazionale: i suoi amori sono stati stranieri ed ogni prodotto della stirpe ha la sua complicata storia multiculturale. Elenca tutti i componenti della famiglia allargata come una filastrocca, nomi e nazionalità. Si sforza di ricordare l’anno di nascita di ognuno di loro e di dirci chi si è sposato con chi e quando. Ma è complicato, fa casino, si confonde. Come ogni nonno, ne è fiero. Poi è il momento di andarsene. Volete restare per cena? Ci chiede. Dobbiamo tornare a Milano, maestro. Ma cosa tornate a fare a Milano? Ci dice. State qua. State qua con me. Uno dei più grandi artisti della storia recente del nostro Paese. Undici nipoti. Una villa enorme, stupenda e silenziosa. Due cani. Ma starebbe volentieri a chiacchierare un altro po’ con due venticinquenni. Grazie maestro ma è lunga e domani dobbiamo montare l’intervista. Ripartiamo. Ci saluta malinconico. Lo salutiamo anche noi. Anche ora, di nuovo. E grazie. La solitudine di un genio, l’amore infinito di uno scorbutico.