Hidetoshi Nakata è uno di quei personaggi che si potrebbero definire larger than life, un uomo che contiene moltitudini. Sedotto dai venti impetuosi, non dalle brezze leggere, ha saputo utilizzare la propria immagine e fama senza mai timore di annoiare il pubblico. Ed è stato capace di dare alla sua vita delle svolte sorprendenti quanto inattese. Oggi è molto più interessato al destino dei contadini e degli artigiani in Giappone che al calcio, nonostante sia stato uno dei talenti più brillanti a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila. Oggi, che si tiene lontano dal media training esasperato ed è anche uno dei nuovi modelli di Stone Island, Nakata rappresenta una rottura autentica con la narrazione stantia dello sport contemporaneo. Lo abbiamo intervistato, ci ha parlato così del suo passato, del suo presente, del suo futuro.
Ⓤ: Al tuo debutto in Italia, con la maglia del Perugia, il giornalista italiano Enrico Varriale pronunciò la frase: «Siamo a Perugia, ma sembra Tokyo». Quali ricordi hai di quegli anni?
Sono arrivato in Italia a 21 anni, non avevo mai giocato all’estero, se non con la maglia della Nazionale giapponese. La Serie A, all’epoca, era il miglior campionato al mondo e attirava i calciatori più talentuosi a livello internazionale. L’esordio contro la Juventus di Zidane e Del Piero (prima giornata della stagione 1998/99, ndr) è ovviamente indimenticabile. Ricordo lo stadio gremito di turisti e giornalisti giapponesi, non ti nascondo di aver sentito una certa pressione…
Ⓤ: Sei stato un autentico pioniere. Il secondo giocatore giapponese nella storia della Serie A.
Sì, Miura ha giocato qualche anno prima di me in Italia (con la maglia del Genova nella stagione 1994/95, ndr). All’epoca rappresentavamo un’eccezione: non c’erano, a differenza di quanto avviene adesso, giocatori asiatici nei principali campionati europei. A essere sincero, però, non ho mai dato particolare importanza e rilevanza al primato. Ho sempre pensato esclusivamente a fare del mio meglio per me e la mia squadra.
Ⓤ: Quando sei arrivato in Italia, molti pensavano che il tuo trasferimento fosse legato esclusivamente a questioni di marketing: in particolare, alla volontà della famiglia Gaucci di espandersi nel nascente mercato giapponese. Come hai affrontato questa fastidiosa “etichetta”?
Non avevo il controllo sul giudizio altrui; l’unica cosa che potessi fare era impegnarmi al massimo. Sta a te, poi, dare o meno importanza a certe voci. Oggettivamente, non potevo controllare le opinioni degli altri. Potevo, però, sfruttando le mie qualità, provare a fargli cambiare idea. Per me il risultato del campo era fondamentale, il resto contava poco. A dirla tutta, determinate etichette non mi hanno mai pesato.
Ⓤ: Qual è il ricordo più felice legato al mondo del calcio?
Anche oggi riesco ad avere rapporti umani e professionali unici, grazie al mio percorso in questo sport. Oggi sono qui, a parlare con te, proprio per dei traguardi raggiunti nel rettangolo di gioco. Senza calcio, probabilmente, non sarei riuscito a costruire quello che sono riuscito a costruire oggi. Non avrei avuto le stesse possibilità.
Ⓤ: Cosa ti ha spinto a ritirarti a soli 29 anni?
Ho iniziato a giocare quando non esisteva ancora la J-League (fondata nel 1992, ndr), il Giappone non aveva ancora esordito al Mondiale, non avevo nemmeno il sogno di diventare professionista. Giocavo esclusivamente per passione, senza secondi fini. Negli anni, però, il calcio è diventato un business sempre più grande. Sono entrate molte figure nuove nel mondo del professionismo. Tutto ciò mi ha tolto il piacere che mi aveva guidato nel corso della mia carriera.
Ⓤ: Dopo aver lasciato il calcio hai viaggiato molto…
Avevo bisogno di trovare un mio posto nel mondo. Avevo bisogno di trovare una passione e capire che cosa potessi realizzare in questa seconda fase della mia vita. Ci ho messo tre anni, ho visitato in più di 100 nazioni diverse, cercando sempre di interrogarmi su quello che mi sarebbe piaciuto fare. Ed è proprio lontano dal Giappone che ho riscoperto le mie radici, le mie origini. Spesso, all’estero, non ero in grado di rispondere a curiosità e domande sul mio Paese, mi sono detto che era necessario riscoprire la mia terra e la sua cultura. Lasciando il Giappone da giovanissimo mi ero perso molto.

Ⓤ: Vorrei parlare del tuo presente imprenditoriale. Che cosa ti ha spinto a fondare la Japan Craft Sake Company, un’azienda dedicata alla promozione e valorizzazione del sakè artigianale giapponese a livello globale?
Quando sono tornato in Giappone, ho iniziato ad interrogarmi sulle origini della nostra cultura. Ogni realtà del Paese è un microcosmo unico, ricco di tradizioni, usi e costumi. Ho deciso di viaggiare nelle 47 prefetture giapponesi immergendomi nella quotidianità delle persone, lavorando a stretto contatto con contadini e artigiani che producono di sakè. Dopo sette anni di viaggi, innamoratomi perdutamente di questa antica tradizione, ho deciso di iniziare a lavorare con loro, mantenendo sempre uno sguardo attento alle evoluzioni del mercato. Grazie al mio passato nel mondo del calcio, credo di essere in una posizione unica per promuovere i prodotti giapponesi a livello globale. Voglio sottolineare che il cuore di ogni mio progetto imprenditoriale è la volontà di tutelare le tradizioni e valorizzare il lavoro di contadini e artigiani.
Ⓤ: Hai anche lanciato il tuo sakè N by Hidetoshi Nakata.
Mi sono ispirato al mondo del vino. Era necessario creare un certo tipo di mercato e per farlo ho lanciato questo ambizioso progetto, è stata una scelta dettata da necessità imprenditoriali.
Ⓤ: Negli ultimi anni hai fondato il marchio Hanaahu Tea, che offre miscele di tè giapponese progettate specificamente per essere abbinate al cibo.
Abbiamo creato questo marchio per supportare i produttori, il cui numero è diminuito drasticamente negli ultimi cinquant’anni. Con il calo dei consumatori di alcolici, ho deciso di concentrarmi su una bevanda che si sposasse bene con la gastronomia. Oltre all’acqua, il tè rappresenta una soluzione ideale. Anche in questo caso, ho scelto di collaborare con produttori locali.
Ⓤ: Come ti vedi da qui a dieci anni?
Mi concentro molto sul presente, è difficile fare previsioni da qui a 10 anni. Sono molto preoccupato per il futuro dell’agricoltura. La popolazione del mondo è in continuo aumento ed il cambiamento climatico è un problema concreto. Specialmente in Giappone è necessario un ricambio generazionale in alcuni settori. La maggior parte dei contadini supera i 65 anni. Vorrei cercare, nei prossimi anni, di ispirare le nuove generazioni. Sakè, tè agricoltura sono parte delle nostre tradizioni e non vanno perse.
Ⓤ: Viene attribuita a Maradona questa frase: “Se tutti i giapponesi iniziassero a giocare come Nakata, dovremmo iniziare a preoccuparci”.
Non mi sono mai sentito davvero così bravo. Penso semplicemente di essermi trovato al posto giusto al momento giusto, niente di più. Ho avuto l’opportunità di giocare in squadre con grandi campioni. La mia fama è anche il frutto di queste fortunate coincidenze. Oggi però il movimento giapponese è in forte crescita. Credo ci sia il potenziale per raggiungere buoni risultati già al prossimo Mondiale.