Con il traguardo dello scudetto ormai visibile, all’ultima curva prima del rettilineo finale, Antonio Conte alzava la voce. Era il 22 aprile 2021, una vita fa. «Sappiamo benissimo le vicissitudini societarie che ci sono state quest’anno. I programmi sono cambiati, per tanti motivi. Alla fine della stagione si dovrà fare chiarezza. Penso che i tifosi lo meritino». Un mese dopo, il tecnico leccese salutava l’Inter: Hakimi con le valigie già fatte direzione Parigi e la concreta possibilità di una ulteriore smobilitazione lo avevano convinto a scendere dalla nave nerazzurra nonostante il titolo appena vinto. Contestualmente all’addio di Conte, Simone Inzaghi sembrava aver trovato l’accordo, l’ennesimo, per il rinnovo contrattuale fino al 2024 con la Lazio. Chiedeva non tanto un adeguamento economico, quanto un maggior peso sul mercato e un ampliamento dello staff. Il 26 maggio 2021 lasciava Villa San Sebastiano con il sorriso dopo il summit con Lotito, sorridendo ai giornalisti e suonando il clacson a mo’ di festeggiamento. I giornali del giorno dopo avevano titolato sicuri della permanenza in biancoceleste: «Tanto rumore per nulla: Inzaghi ha firmato». Uno scenario totalmente ribaltato nel giro di qualche ora: l’accelerazione di Marotta, la scelta di lasciare la Lazio e di accasarsi all’Inter.
Bisogna ripartire da qui per fare il punto sul quadriennio interista di Inzaghi, ora che all’orizzonte c’è la seconda finale di Champions League in tre anni e tutto, in caso di sconfitta contro il PSG, farebbe urlare al fallimento epocale. Perché di Inzaghi, come forse con nessun altro allenatore, si contano più le mancate vittorie che i trofei. E così è diventato quello che «ha perso due scudetti», non quello che ne ha vinto uno; quello che «ha perso Supercoppa e Coppa Italia contro il Milan». Perdere anche contro il PSG non farebbe che aumentare questo coro. Eppure, con il Corriere della Sera tra le mani, alla fine di maggio del 2021, questo è quel che si leggeva di lui e del progetto interista: «Hanno puntato su una figura che conosce il campionato italiano, schiera la squadra con il 3-5-2, entra alla Pinetina con spirito aziendalista».
Lavorare sui margini
Il lavoro di Inzaghi, in questi quattro anni, è andato ben oltre la semplice prosecuzione di quanto fatto da Conte. Ha raccolto una squadra che, oltre a Hakimi, aveva perso anche Lukaku ed Eriksen, per motivi ben diversi, e ha iniziato a fare quello che, per anni, aveva già fatto con successo alla Lazio. Se oggi il direttore sportivo del Milan è Igli Tare, buona parte del merito va anche a Simone Inzaghi, che grazie alle sue intuizioni e alle sue idee di calcio ha reso Ciro Immobile l’ottavo miglior marcatore della storia della Serie A, mettendo la firma su larga parte delle 169 reti segnate in campionato con la Lazio; ha recuperato e reinventato due volte Luis Alberto, portato a Roma come teorico ricambio degli esterni dell’allora 4-3-3 caro al tecnico piacentino, aggiustando via via la Lazio attorno al talento dello spagnolo, esaltato prima da seconda punta nel 3-5-2, quindi da mezzala mancina, dando vita a un polo creativo impressionante in associazione con Milinkovic-Savic; ha adattato e riadattato esterni diventati braccetti all’occorrenza (Marusic) e in via definitiva (Patric).
Per i più pigri, la Lazio di Inzaghi in purezza: da mezzala a mezzala, Luis Alberto per Milinkovic-Savic a fare a fette la Juventus di Sarri
Abituato a nascondere la polvere sotto al tappeto trovando risorse in anfratti impensabili delle rose allenate a Roma, all’Inter Inzaghi ha elevato quest’arte, piazzando Hakan Calhanoglu in regia nel momento della necessità dopo un lungo girovagare del turco, spesso mezzala, talvolta numero 10, persino esterno d’attacco in una delle sue reincarnazioni milaniste. Ha valutato l’ipotesi di rendere Dimarco un centrale di sinistra della difesa a tre, poi lo ha definitivamente lanciato come quinto titolare: eppure il suo ingresso per Perisic, insieme a quelli di Sánchez e Vidal (per Lautaro e Calhanoglu), era stato visto come uno dei motivi per cui l’Inter, nella prima stagione inzaghiana, aveva perso lo scudetto consentendo al Milan di ribaltare un derby fino a quel momento controllato in maniera abbastanza agevole dai nerazzurri. Prendendo in esame i costi dei cartellini in entrata e in uscita dell’ultimo quadriennio (dati Transfermarkt), l’Inter è l’unica big, insieme all’Atalanta, a presentare un saldo positivo (all’incirca +114 milioni), mentre Milan, Juventus, Napoli e Roma presentano saldi negativi che oscillano tra i 270 e gli 80 milioni.
Pregi e difetti
Non sono mancati gli errori di valutazione, come la volontà di spingere per l’approdo di Correa in nerazzurro, forse la spesa peggiore effettuata da Marotta e Ausilio nel corso di questi quattro anni. Ma l’Inter si è nutrita di parametri zero, alcuni dei quali ritenuti già ai limiti della bollitura dagli addetti ai lavori, salvo rendersi conto, alla prova del campo, che Inzaghi aveva per loro idee chiarissime, da Dzeko a Mkhitaryan. Aiutato da alcune cessioni monstre, su tutte quella di Onana al Manchester United, il board interista ha potuto allo stesso tempo alleggerire le casse e rimanere ai massimi livelli solo grazie al lavoro di Inzaghi, che ha sciolto le briglie di Lautaro Martínez fino a farlo diventare implacabile in zona gol (25-28-27-22 recita il tassametro delle stagioni dell’argentino agli ordini dell’allenatore ex Lazio), ha lavorato di fino su Dumfries rendendolo un giocatore in grado di spostare gli equilibri anche ai massimi livelli internazionali, ha scommesso su Acerbi andando contro persino una larga parte della tifoseria, elevandolo allo status di centrale dominante, in grado di terrorizzare anche i più forti attaccanti del continente. Ha cercato di sgrezzare Bisseck, arrivato all’Inter a 23 anni dopo due stagioni buone ma non straordinarie in Danimarca: un lavoro da portare a termine, visto che il tedesco ha ancora mostrato la sinistra tendenza a staccare la spina in alcuni momenti.
Adesso, nonostante tutto, Inzaghi sembra appeso a un filo, perché vincere o perdere la finale di Champions League farà tutta la differenza del mondo nel giudizio. Una gara che arriva dopo gli exploit con Bayern Monaco e Barcellona, ma anche dopo le delusioni in Supercoppa, in Coppa Italia e soprattutto in campionato: l’impressione è che il gruppo interista, la cui età media fa legittimamente pensare che si tratti dell’ultimo giro di giostra, abbia inconsciamente scelto dove concentrare le proprie forze, in un all-in dai risvolti inevitabilmente controversi. E non c’è dubbio che Inzaghi paghi anche un aspetto che con il campo ha poco a che fare: il rapporto pubblico con la stampa. Non sembra mai in grado di dominare le polemiche, le subisce, quando prova a cavalcarle lo fa con un tono che risulta lamentoso. Non a caso, quando ha precisato con il gesto delle dita che l’Inter era ancora in corsa su tre fronti, è diventato immediatamente un meme, da ripescare man mano che gli obiettivi sfumavano.
Inzaghi non dà titoli, parla sempre in pienissimo calcese, ringrazia i ragazzi quando vince e si strugge per loro quando perdono (da qui è nato il famosissimo Spiaze), se le cose vanno male dopo partite giocate meglio dice di non ricordare parate del suo portiere, con il nome che nel corso degli anni è passato da Strakosha a Sommer, con in mezzo i vari Handanovic e Onana. Un punto debole, se così si può definirlo, che è parso ancora più evidente dopo una stagione di testa a testa con Antonio Conte, assoluto maestro della disciplina.
E fa passare quasi tutto in secondo piano anche la qualità del gioco dell’Inter e i risultati ottenuti su tutti i fronti con una rosa in cui le lacune non mancano: ma a inizio anno è passato il concetto che Inzaghi avesse a disposizione due squadre di egual livello e su quello ci si è appiattiti, come se Taremi e Arnautovic fossero lontanamente paragonabili a Lautaro e Thuram, o come se Darmian potesse garantire lo stesso impatto fisico di Dumfries, o Asllani la regia di Calhanoglu, o Bisseck l’affidabilità di Pavard, o De Vrij la capacità di cancellare i rivali dalla partita come Acerbi. Gli restano 90 minuti, forse 120, per convincere gli scettici oppure farli saltare definitivamente sulla sedia. Perché nel calcio, il più crudele degli sport, ormai conta solo come si finisce.