Guardandolo da fuori, lo stadio Appiani di Padova sembra un’infrastruttura sportiva qualunque. Eppure basta avvicinarsi un po’ per percepire qualcosa nell’aria. L’Appiani non è solo un ammasso di cemento: è memoria che si conserva, è storia che torna a battere. Ancora oggi, il vecchio campo del Padova rappresenta l’anima e il cuore di una tifoseria, quindi di una città. Inaugurato nel 1924, è stato la casa del Padova per 70 anni. Dedicato al giovane Silvio Appiani, calciatore morto a soli 21 anni sul fronte del Carso nella Prima Guerra Mondiale, è uno dei rari stadi italiani costruiti sul modello inglese. Lo stadio non ha la pista d’atletica, le curve sono a ridosso del campo, l’ingresso è incastonato fra le abitazioni. In due parole: calore puro.
L’Appiani, non a caso, veniva chiamato “la fossa dei leoni”. Le parole di Claudio Ottoni, ex capitano e bandiera del Biancoscudo, lo spiegano bene: «Giocare all’Appiani», dice a Undici, «era un motivo di grandissimo orgoglio. Solo chi ha vissuto quegli anni può capire. Entravamo dal sottopasso, e ci trovavamo dinanzi la muraglia della Tribuna Est. I tifosi erano attaccati alla rete, alcuni si arrampicavano. Il loro supporto era talmente intenso che sembrava ci spingessero fisicamente. Intimorivano gli avversari. Ci facevano vincere le partite». L’Appiani, insomma, è la storia del Padova. E di Padova. Ci hanno giocato nomi importanti come Del Piero, Albertini e Di Livio; ci ha allenato Nereo Rocco, portando il Padova al terzo posto in Serie A nella stagione 1957/58 – il miglior risultato di sempre nella storia del club. E ancora: come dimenticare la memorabile amichevole contro il Real Madrid, la Partita del Secolo contro il Grande Torino (un incredibile 4-4 poco prima della tragedia di Superga) e la promozione in A del 1994?
L’Appiani rappresenta un’occasione anche guardando la questione da un punto di vista ancorato al presente e proiettata al futuro: dove una volta sorgeva la Gradinata Est, oggi si erge un terrapieno. E proprio lì che è in programma la costruzione di una nuova tribuna, 200 posti. Per qualcuno sarà un piccolo passo, ma per i padovani e per chi ha indossato la maglia biancoscudata è un luogo quasi sacro. E che, come abbiamo visto, ha del potenziale da sfruttare.
Tuttavia, la società sembra voler insistere su tutt’altro fronte. Sullo Stadio Euganeo. Una struttura considerata tra le più spente, vuote, e architettonicamente scoraggianti d’Italia. Lontano dalla città, con una pista d’atletica che uccide la visibilità e la voce, con gradinate spesso interdette e – soprattutto – con la Curva Sud chiusa per un’eterna ristrutturazione. I lavori di rifacimento del settore più caldo sono stati fermati, poi sono ripresi, poi il settore è stato sequestrato e il lavori sono stati sospesi di nuovo. L’ennesimo caso di burocrazia malata, quella che Carlo Cottarelli, nel suo libro I sette peccati capitali dell’economia italiana, indica come «il vero freno strutturale allo sviluppo e al progresso del Paese».
E così oggi Padova si ritrova con una tifoseria stanca, ultras che disertano per protesta, settori chiusi anche nei match chiave – come quella contro l’Union Clodiense dello scorso aprile – e uno stadio che non può e non riesce a rappresentare una piazza calda, viva, ambiziosa. Il problema riguarda tutti: l’amministrazione comunale, naturalmente, ma anche la proprietà e il club. E allora viene da chiedersi: perché insistere sull’Euganeo quando l’alternativa è sotto gli occhi di tutti e renderebbe entusiasta un’intera città? Perché non valorizzare un gioiello come l’Appiani, ridandogli dignità?
Al di là della nostalgia e dei rimandi storici, ci sono tanti altri aspetti da cui poter ripartire: l’Appiani è in centro, a due passi da Prato della Valle, dalla Basilica di Sant’Antonio e da quella di Santa Giustina. Una posizione strategica per i tifosi, per i turisti, per il commercio cittadino. L’Euganeo si trova invece in periferia, accanto alla tangenziale, con una viabilità tutt’altro che scorrevole, ha parcheggi inadeguati e i trasporti pubblici sono insufficienti. È uno stadio isolato, che sembra essere stato abbandonato a se stesso ed è a tutti gli effetti finito nel dimenticatoio.
Insomma, tornare all’Appiani sarebbe innanzitutto una questione di visione, di strategia. Valorizzare il vecchio stadio non sarebbe un’opera di romanticismo sterile, ma una mossa studiata ad hoc, frutto di una logica economica. Spalti pieni, tifosi entusiasti e coinvolti, nuove generazioni attratte: lo sanno bene a Udine o a Bergamo, dove la Dacia Arena e il Gewiss Stadium hanno contribuito a riaccendere la passione dei tifosi. E garantiscono frequenti sold out, introiti in crescita, commercio locale che beneficia delle partite in centro.
La vera domanda è: c’è un margine reale per tornare all’Appiani? Il progetto attuale prevede una riqualificazione parziale, legata anche al rifacimento di via 58° Fanteria, alla riapertura del Canale Alicorno e alla costruzione una nuova pista ciclabile. Al posto della storica Gradinata Est, come detto, ci sarà un terrapieno da 200 posti, sommati ai 1.200 della tribuna Ovest. Non sarà più lo stadio di una volta, ma almeno potrebbe tornare vivo. Ma tutto questo è abbastanza per una piazza che per dimensioni – includendo la provincia, Padova conta circa un milione di abitanti – è tra le più importanti d’Italia?
Il ritorno in Serie B è una chance concreta per riscrivere il futuro. Un club storico, che rappresenta una città patrimonio UNESCO – grazie al suo vastissimo patrimonio culturale ed artistico – e che ha una delle università più antiche del mondo, merita di tornare a sognare in grande. E tutto parte da casa propria. Dallo stadio. Anche se l’Appiani fosse (e lo è) ancora di proprietà comunale, un investimento serio e condiviso potrebbe innescare un circolo virtuoso: per il club, per la sua tifoseria, ma anche per la città.
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