Il Deportivo Palestino è in lotta per il titolo cileno, ma soprattutto per la memoria e l’identità di un popolo

Nata da una comunità di emigrati a Santiago, non è solo è un club di calcio: è simbolo di resistenza e speranza per milioni di palestinesi in tutto il mondo.
di Marco Colombo

Ci sono squadre che rappresentano una città, altre che raccontano una regione o un’area geografica definita. Il Deportivo Palestino, come racconta il suo motto, rappresenta «todo un pueblo». A più di 13mila chilometri da Ramallah, a Santiago del Cile, questa squadra nata nel 1920 da una comunità di emigrati palestinesi è diventata molto più di un club: è un modo per tramandare e conservare le tradizioni palestinesi. E oggi, dopo anni di lavoro e fatiche, il Palestino è tornato al centro della scena. Lotta per la vittoria del campionato con un gioco ambizioso, tecnico, emozionato ed emozionante. Perché il Palestino non gioca solo per sé: gioca per chi è lontano, per chi non ha voce, per chi non ha più terra sotto i piedi. È lì che il calcio smette di essere solo sport e diventa linguaggio, geografia emotiva, memoria viva.

«Non è una questione politica o di religione», spiega a Undici Jose Nabzo, responsabile della comunicazione del club cileno. «Per noi è solo una questione di umanità». E già la data di fondazione fa capire come il Palestino, pur se immerso in una storia più ampia che lega il Cile al medio Oriente, non rappresenti una rivendicazione politica: «Siamo nati nel 1920», fa notare Nabzo, «vale a dire 28 anni prima dello stato di Israele». Per ricordare che il Club Deportivo Palestino, così come il popolo da cui ha origine, porta dentro di se una storia millenaria che non si limita alla contrapposizione con Israele. 

Siamo nel quartiere La Cisterna, nella periferia sud di Santiago. Oggi area residenziale e popolare, nel 1920 si presentava come un’area rurale abitata prevalentemente da persone immigrate dal Medio Oriente, dall’Italia e dalla Spagna. Proprio qui, il 20 agosto di quell’anno, nasce il Club Deportivo Palestino. Un momento non casuale: nello stesso periodo, in Palestina, prendeva forma il mandato britannico, alimentando il timore che una cultura millenaria potesse dissolversi sotto il peso della colonizzazione. Così una comunità in esilio sceglie il calcio per resistere.

Il club prende forma con i colori sociali che ricalcano quelli della bandiera palestinese: rosso, verde, bianco e nero. Inizia un’esperienza collettiva e di comunità, un modo per unire i palestinesi in Cile mantenendo vive le tradizioni che avevano lasciato in patria. La squadra comincia il suo cammino nei campionati non professionistici, senza stadi colmi né luci artificiali. Solo il rumore del pallone calciato, l’odore della terra e il suono delle voci arabe mischiate a quelle spagnole. Ma attorno a quella squadra nasce qualcosa di più profondo. Bottegai, artigiani, commercianti, famiglie intere trovavano nel club un punto d’incontro, un’identità condivisa. Ogni partita diventa una festa, ma anche un rito: si porta cibo tradizionale da casa, si discute della situazione in Palestina, si costruiscono legami. Il campo diventa una piazza, e il calcio il linguaggio che unisce la nostalgia per la terra perduta alla speranza per una nuova vita.

Ma, per la seconda volta, la storia del club si intreccia con quella del paese d’origine. Nel 1948, con la nascita dello Stato d’Israele, oltre 700.000 palestinesi furono costretti a fuggire dalle proprie case. È la Nakba: L’espulsione forzata e violenta dei palestinesi dalle proprie terre. E quello che succede in patria cambia per sempre anche il Palestino. «Si sentiva l’esigenza di fare qualcosa, di fare di più», spiega Nabzo. «Il dolore per quello che accadeva in Palestina era insopportabile». Si decise così di iscrivere per la prima volta la squadra al campionato professionistico per portare i colori della Palestina in tutto il paese. «La narrazione nel 1948 era che Israele sarebbe sorto in una terra in cui non c’era nessun popolo e nessuna tradizione», ricorda Nabzo. «Il nostro club testimoniava l’opposto. Ogni domenica portiamo la storia millenaria della nostra terra in tutto il Cile. Quella storia esiste ed è sempre esistita». 

Da quel momento il Club Deportivo Palestino non ha mai smesso di calcare i campi del calcio professionistico vincendo due campionati e tre coppe del Cile, l’ultima nel 2018. Ma sopratutto, non ha mai smesso di portare in tutto il paese i simboli e la cultura palestinese. Il legame con la Cisgiordania è talmente forte che il presidente dell’autorità palestinese, Mahmoud Abbas, ha più volte elogiato lo spirito del club riconoscendone l’importanza per la diffusione delle tradizioni palestinesi. «Avete portato i nostri colori e ci avete dato voce in tempi difficili», scriveva nel 2014 in una delle sue lettere al club. «Per noi rappresentate una porzione di Palestina in Cile. Per questo siete come una seconda squadra nazionale per il popolo palestinese e i vostri giocatori sono nostri ambasciatori».

Le partite casalinghe allo stadio La Cisterna sono un momento collettivo di condivisione e rivendicazione delle proprie origini. «Il giorno della partita è un momento carico di simboli», spiega Jose Nabzo. «Per esempio, all’ingresso distribuiamo bandiere palestinesi ai tifosi, i giocatori entrano in campo con la kefiah al collo e all’interno dello stadio si possono acquistare falafel e altri cibi tradizionali. Tutto quello che facciamo lo facciamo pensando alla Palestina». La maglia della squadra è da sempre ispirata a simboli palestinesi e in varie occasioni i giocatori sono scesi in campo con divise speciali in cui compariva la sagoma della mappa storica della Palestina. Nel 2014 il club arrivò ad utilizzare quella forma al posto dei numeri “1” sul retro delle divise. Un gesto carico di simbolismo che ha travalicato i confini sportivi causando polemiche. Una situazione che costrinse la federazione a multare il club e a chiedere la rimozione della sagoma e il ripristino dei numeri. «Paradossalmente è stato meglio che ci abbiano multato», racconta Nabzo. «Quella notizia ha fatto il giro del mondo e tutti hanno visto la maglia e si sono interrogati sulla Palestina. Il nostro obiettivo era raggiunto». Ma tra coreografie ispirate alla bandiera palestinese e maglie iconiche, come quella che riprende i colori dell’anguria simbolo della Palestina, il club porta i suoi valori in campo ad ogni partita.

E nel corso degli anni ha coltivato il proprio legame con la terra d’origine. Nel 2016 la squadra è partita per una storica tournée che ha consentito di dare il via ad una presenza sempre più forte del club in Cisgiordania. Una presenza che si è consolidata ulteriormente quattro anni più tardi con l’apertura di tre scuole calcio del Palestino in Cisgiordania e a Gaza. Strutture che per anni, fino al 7 ottobre 2023, hanno offerto ai ragazzi e ai bambini palestinesi molto più di un campo da calcio: uno spazio di libertà, gioco e speranza.

Inevitabilmente il 7 ottobre 2023, giorno dell’inizio del conflitto a Gaza, ha segnato la storia recente del club. Come accaduto in occasione della Nakba che portò il club al professionismo nel 1948, anche in questa occasione si è sentita la necessità di fare qualcosa. «Quel giorno è stato uno shock», ricorda Nabzo. «Ma ci ha dato la spinta. Abbiamo pensato “noi non siamo una squadra qualsiasi, noi siamo il Palestino e non staremo in silenzio”». Non si poteva restare a guardare. Non si poteva solo giocare a calcio mentre a Gaza si moltiplicavano le macerie, i nomi dei bambini morti, il dolore senza tregua. Così, la comunicazione del club ha preso una svolta netta, e sui social, ai messaggi sportivi si sono affiancati post di denuncia. Anche in campo e sugli spalti giocatori e tifosi hanno più volte manifestato il loro dolore e la loro rabbia per quanto accade nella Striscia. Più volte i giocatori sono entrati in campo con uno striscione dal messaggio chiaro: «Stop the genocide in Gaza».

Parole che da questa parte di mondo spesso vengono considerate problematiche ma che in Cile sono accettate e condivise. «Qui tutti sostengono la Palestina – spiega Nabzo – Anche parte della comunità ebraica condanna la reazione di Israele e pensa che sia stata spropositata». Un contesto diametralmente opposto rispetto a quello a cui siamo abituati, frutto di una storia centenaria di convivenza e integrazione passata, anche, attraverso il calcio. E anche per questo il Palestino è uno dei club più amati: «Non siamo certo la squadra con più tifosi in Cile – spiega sorridendo Nabzo – ma qua tutti ci sostengono. Tutti amano la Palestina e la causa palestinese e di conseguenza ci vogliono bene».  

Spinto dal sostegno di un intero popolo e dal supporto di tutto il Cile, il Palestino sta disputando una stagione oltre ogni aspettativa. Al termine del girone d’andata si trova al terzo posto a sole tre lunghezze dalla capolista Coquimbo Unido. Sotto la guida tecnica di Lucas Bovaglio, il “Tino‑Tino” ha trovato una solidità inaspettata: la difesa è una delle migliori del campionato, con sole 14 reti incassate, mentre l’attacco può contare sulla classe di Joe Abrigo e la forza fisica di Junior Marabel, entrambi protagonisti con 5 reti a testa. 

Per la tifoseria è l’anno della verità: mai il club guidato dalla diaspora palestinese era stato così vicino alla vetta. La voglia di centrare il titolo nazionale – inseguito senza successo dal 1978, anno dell’ultima vittoria – è palpabile. Bovaglio ha ribadito l’ambizione del gruppo al termine dell’ultimo match: «Vogliamo giocarcela fino alla fine». Nei prossimi turni attendono sfide chiave: trasferta a Cobresal, scontri diretti contro i leader e una partita delicata contro Universidad Católica. Il margine esiguo rende ogni errore fatale, ma la squadra ha dimostrato di saper reagire: se manterrà questa tenuta mentale e calcistica, i sogni di gloria potranno accendersi davvero. In un mondo in cui la Palestina è spesso sinonimo di sofferenza e oppressione, il club cileno riesce a raccontare un’altra narrazione: quella di una Palestina che vince, che lotta in campo con dignità e passione. Ogni gol, ogni vittoria, è anche un messaggio: la Palestina esiste, resiste, e può anche sognare.

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