Volevamo elevare il basket femminile e abbiamo fatto un passo importante, intervista a Lorela Cubaj

Il centro della Nazionale parla del grande percorso agli Europei, della delusione in semifinale e della rinascita nella finale per il bronzo, della sua carriera e del movimento italiano.
di Marco Gaetani
01 Luglio 2025

Il basket è uno sport crudele, che vive di momenti, di folate che cambiano i destini di una partita. Con cinque secondi scarsi sul cronometro di Italia-Turchia, quarto di finale dell’Europeo femminile, Jasmine Keys calibra male la rimessa e regala alle avversarie l’ultima possibilità di rimanere aggrappate al torneo. Sotto di due, le turche scelgono di non andare per il bersaglio grosso ma di accontentarsi del tiro dell’eventuale overtime: se lo prende Sevgi Uzun, il pallone che schiaffeggia la retina e fa esplodere di gioia la panchina turca congela le nostre ragazze, ne ferma il battito cardiaco. Quando si torna sul parquet tutto sembra dire Turchia, dal linguaggio del corpo di McCowan e compagne agli occhi gonfi di lacrime di Keys, che rientra in campo nonostante tutto. Per i primi due minuti del supplementare la partita si fa sporca, sui due canestri sembra calato un pannello di plexiglass. Nel momento più difficile, l’Italia sceglie di affidarsi alle spalle larghe di Lorela Cubaj, centro vecchio stampo, la palla in post basso come rifugio per l’anima.

È da quei tre possessi consecutivi, che ridanno fiato e fiducia alle azzurre, arrivate poi a mettersi al collo un meraviglioso bronzo qualche giorno più tardi, che comincia la nostra intervista con Lorela, ternana classe 1999, papà albanese e mamma nata in Kosovo, un amore che ha gettato le sue basi dall’altra parte dell’Adriatico e si è consolidato in Italia. Le chiediamo cosa si prova in un momento come quello, in cui si è, come dicono negli Stati Uniti, in the zone: «In quei due minuti non segnava nessuno, in attacco eravamo ancora un po’ scosse dal finale dei regolamentari, in difesa abbiamo fatto un lavoro eccellente cercando di limitare la Turchia. Sarebbe stato facile demoralizzarsi dopo quel tiro allo scadere. Io onestamente mi sono sentita addosso la fiducia delle compagne, mi hanno cercata, avevamo l’energia delle buone difese di quei minuti e questo ha fatto la differenza anche per me, sono riuscita a esprimermi al meglio e fare quei due-tre canestri che sono stati molto importanti. Tutto è nato dalla difesa e dal lavoro collettivo che abbiamo fatto prima di quel momento».

Il valore del lavoro collettivo, l’attacco che nasce dalla difesa: è il ritratto della carriera di coach Andrea Capobianco. Quanto è stata decisiva la sua impronta da quando è tornato alla guida della Nazionale maggiore?
Il coach ha fatto un lavoro importantissimo per noi, ha iniziato a mettere le basi fin dai raduni brevi di novembre e febbraio per le qualificazioni. Questo raduno è stato importante come squadra, ci ha unite tanto, abbiamo lavorato molto duramente che è un po’ come allena il coach e questa cosa alla fine si è vista in campo, eravamo molto unite. La difesa è stata la base di tutto.
Avete risposto dopo ogni schiaffo. Il pari sulla sirena della Turchia nei quarti di finale, la sconfitta in volata contro il Belgio dopo una rimonta meravigliosa nel quarto quarto. Come siete riuscite a resettare tutto prima della finale per il bronzo con la Francia?
Quello che è successo alla fine della partita con il Belgio ci ha lasciato tristi, un po’ demoralizzate, ma siamo state molto brave nel parlare tanto dopo la partita, abbiamo resettato, abbiamo anche parlato degli errori, ci siamo confrontate prima della Francia e penso sia stato fondamentale. Durante tutto il torneo ci siamo parlate tanto anche nella delusione e nella tristezza.

Come nasce un gruppo così compatto?
A livello di carattere chiaramente c’è chi parla tanto, come me che sono molto vocale anche in campo, e chi invece è più portato ad ascoltare. C’è stato un clic, a un certo punto: abbiamo fatto un po’ di tornei insieme e questo ha facilitato la cosa, ci conoscevamo bene, eravamo in casa nel girone e volevamo fare un’ottima impressione fin da lì, perché avevamo questo tabù dei quarti di finale e di due-tre Europei non grandiosi per noi. Volevamo elevare il basket femminile: era da un po’ di anni che ci mancava un risultato e questa cosa ci iniziava a pesare, fai tanti giorni di lavoro e il risultato non arriva, questo ti pesa specialmente quando vedi che il talento c’è e la voglia di lavorare pure.
Hai detto che «volevamo elevare il basket femminile». Ecco, vi sentite responsabili nei confronti delle giovani che si avvicinano alla pallacanestro? Come vivete questo momento in generale dello sport femminile in Italia?
Questo momento collettivo è un primo passo di buon auspicio, può portare a un cambiamento della percezione dello sport femminile in Italia. Sentiamo la responsabilità nei confronti delle ragazze più giovani, ci portavamo addosso la sofferenza del calo delle tesserate, volevamo dare rilievo e rendere più popolare il basket femminile perché era un momento un po’ così, sappiamo che abbiamo un’immagine importante e che con questo risultato speriamo di aver fatto un primo passo anche per le generazioni più giovani.

Dopo quello che sembrava un percorso florido, il basket femminile ha infatti vissuto un momento particolarmente complesso: sembra passata un’eternità, ma era soltanto un anno fa quando la Virtus Bologna decideva di chiudere da un giorno all’altro la sua sezione femminile, incassando un forte atto di denuncia da parte di Cecilia Zandalasini, la stella della nostra Nazionale che proprio le Vu Nere avevano riportato in Italia. «Senza preavviso, senza segnali di avvertimento, senza garanzie e all’interno di una società che ha sempre fatto grandi proclami e rivendicato solidità e progettualità», per usare le parole di Cecilia in occasione di quella decisione. Ma torniamo a Lorela e a quello che è stato il suo percorso personale verso la pallacanestro, segnato dall’influenza dello zio paterno.
Qual è il primo ricordo con una palla da basket?
Ho iniziato a giocare a Terni con la Pink Basket, il giorno del primo allenamento di squadra avrò avuto 8-9 anni, era una squadra appena fondata, è un bel ricordo perché è l’inizio di tutto, quando sei lì non ti aspetti che possa portare a determinati risultati. Sono una persona molto decisa, ho iniziato a pensare di potercela fare a 13-14 anni perché vedevo i miei progressi, seguivo la nazionale in tv, le ragazze che giocavano, ho pensato che potesse diventare il mio futuro.
A 15 anni il trasferimento a Venezia lasciando casa, quindi la decisione di volare negli Stati Uniti, dove ha anche assaggiato i parquet della WNBA: quanto è stato importante a livello personale oltre che tecnico?
Andare a Venezia è stato fondamentale, era la prima volta che ero lontana dalla mia famiglia e avevo 15 anni, è stato un momento per me di grande crescita. Ovviamente andare in una realtà grande come la Reyer, che mi ha dato la possibilità di vedere subito la Serie A da minorenne, mi ha dato tanto, proprio come giocatrice. La decisione di andare in America l’ho presa con consapevolezza, sapevo che poteva essere un rischio ma è stata anche una scelta di vita, volevo un’esperienza fuori dall’Italia e nel mentre potevo studiare, sempre pensando alla pallacanestro. Volevo confrontarmi con un altro livello che è quello del college, mi ha formato, sono passata da ragazzina a donna e questo mi ha formato molto. Mi ha trasmesso esperienza.

Qual è il futuro di Lorela?
Io penso sempre anno dopo anno, mi piacerebbe continuare a competere ai massimi livelli, rimanere in Eurolega per quanto riguarda il club e con la Nazionale abbiamo l’obiettivo della qualificazione al Mondiale con il torneo che si farà a marzo, è un nostro obiettivo forte a livello di squadra. Sono molto aperta al cambiamento, non chiudo nessuna porta, non penso che l’eventuale rientro in America sia da scartare, mi piacerebbe poter ritornare, io in questi anni ho voluto dare la precedenza alla Nazionale.
L’Italia femminile non gioca un Mondiale da 31 anni. Mai come stavolta, grazie a Lorela e a una squadra compatta come un blocco di granito, si può tornare a sognare.

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