Zaino in spalla direzione Porto, Francesco Farioli riparte da qui. Dopo i dodici mesi all’Ajax, una stagione chiusa con un titolo sfumato all’ultima giornata dopo aver dilapidato nove punti di vantaggio nelle ultime cinque giornate, l’allenatore italiano ha scelto la sua prossima destinazione. Farioli è stato scelto come successore di Martín Anselmi, il suo contratto durerà fino al 2027 e gli permetterà di mettersi alla prova in una delle realtà più ambiziose del calcio europeo, in un contesto che richiede risultati immediati e identità riconoscibile. Secondo le ricostruzioni dei media, il Porto lo monitorava da mesi – da gennaio per l’esattezza – ma lui ha preferito chiudere la stagione e la sua esperienza ad Amsterdam prima di comunicare la sua decisione.
A questo punto viene da chiedersi: perché il Porto ha scelto proprio Farioli? E perché, nonostante una crescita evidente, nessun club italiano ha deciso di puntare su di lui? A queste domande si potrebbe rispondere contemporaneamente. E la risposta forse sta nella natura stessa di Farioli, un allenatore che si potrebbe definire totalizzante. Il suo calcio è offensivo, propositivo, organizzato, ispirato al modello olandese ma adattato con intelligenza a seconda del contesto in cui si trova a veicolare le sue idee di calcio. Fondato sulla costruzione dal basso, il pressing alto e il possesso palla. Ma soprattutto è un calcio che non si impone per principio: per assimilarlo servono tempo e pazienza.
Certo, la realtà dei fatti dice che stiamo parlando di un allenatore che mette sempre al centro le relazioni. Quelle che si sviluppano in campo, ma soprattutto quelle che intrattiene con i calciatori. Ai quali vuole entrare nella testa, attraverso il potere della connessione tra le persone, la forza dello spogliatoio come collettivo umano prima ancora che sportivo. Per lui la serenità di un ambiente determina gran parte di ciò che succede in campo. Lo sanno i tifosi dell’Ajax, che lo hanno amato nonostante il titolo sfumato in modo a dir poco crudele. Lo sanno i suoi giocatori, spremuti fino all’ultima goccia. E se persino un totem come Jordan Henderson, con cui ha lavorato ad Amsterdam, ti dedica un post per ringraziarti dopo una sola stagione vissuta, beh, vuol dire che qualcosa gli è rimasto.
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Anche per questo, Farioli continua a salire di livello. Ogni tappa lo ha portato uno step più su: dopo la Turchia – con Karagümrük e Alanyaspor – e il Nizza, è arrivato l’Ajax. Ora è la volta Porto. Ogni volta è riuscito ad amalgamarsi bene al nuovo contesto, e non è solo una frase fatta: «Giocare con la maglia dell’Ajax comporta delle responsabilità che sono un pochino diverse rispetto ad altri club». Insomma, Farioli sa pesare il valore delle realtà che allena, rispettandone in profondità il dna. Sa dare forma al presente senza tradire il passato. L’Ajax veniva da un campionato terribile, 28 punti di ritardo dal Feyenoord e 35 dai campioni del PSV Eindhoven. Lui ha perso, è vero, ma ha riportato quella squadra a giocarsi il titolo fino all’ultima giornata. A dimostrazione anche di quanto sia forte nello scuotere i giocatori, nel far ritrovare loro la motivazione.
Al Porto arriva da tecnico formato, riconoscibile, alla ricerca dell’unica cosa che ormai gli manca: i titoli. Perché sì, a un certo punto contano anche quelli. E questa è l’occasione giusta per prendersi ciò che gli è mancato finora. L’esperienza in Portogallo, in questo senso, sarà uno snodo cruciale della sua carriera. Al momento, il fatto che sia stato scelto è una conferma del suo status e del suo appeal internazionale. Come si dice in questi casi, manca solo l’ultimo passo. Quello più difficile. Ma Farioli al Porto è anche qualcosa di più: è un buon segnale per il nostro calcio. Perché se Farioli non ha (ancora) allenato in Italia, è anche vero che ogni sua tappa all’estero parla bene del modo in cui si è formato. Di ciò che potremmo essere.