Spesso sottovalutiamo la rassicurante certezza rappresentata dall’ora esatta in qualunque sfera sociale. Lavoro, concerti, viaggi (anzi: pensando ai ritardi dei mezzi di trasporto pubblico, forse non la sottovalutiamo affatto). Vale anche negli sport. In quasi tutti gli sport. Perché se tra calcio, basket e atletica leggera un qualunque sfasamento – fischio d’inizio, palla a due, sparo ai blocchi di partenza – è sufficiente a fare notizia tra pubblico e atleti coinvolti, il tennis deve fare i conti con tutt’altra faccenda. Basti pensare che tra la partita più breve della storia (al maschile, Nieminen contro Tomic, Miami 2014, 6-0, 6-1 in 28 minuti e 20 secondi) e quella più lunga (Isner-Mahut, Wimbledon 2010, 6-4, 3-6, 6(7)-7, 7-6(3), 70-68 in 11 ore e 5 minuti) c’è quasi mezza giornata di differenza. E anche all’interno dei due estremi da record, di volta in volta, di set in set, ciascuna sfida ha durata e caratteristiche imprevedibili rispetto alle altre. Con inevitabili implicazioni organizzative. “Fa veramente schifo non poter sapere quando si inizia davvero”, ha detto Carlos Alcaraz, nel corso del Cincinnati Open che si concluderà stasera in Ohio, con lo spagnolo e Yannik Sinner di nuovo l’uno contro l’altro in finale. “Doversi riscaldare tre, quattro volte per niente, è terribile. Una cosa terribile”.
Il caso specifico riguarda la sfida disputata lo scorso 13 agosto tra l’americano Opelka e l’argentino Comesaña, durata quasi tre ore. “Pensavo che avere Reilly di fronte a me”, spiega Alcaraz a proposito dell’idolo di casa, “avrebbe reso le cose un po’ rapide. Non mi sarei mai immaginato un match così lungo”. Senza contare 45 minuti di pausa supplementare dovuta alla pioggia. E al grande Carlos, che dopo di loro aveva in programma il suo nella medesima Center Court, non è restato che aspettare (per poi vincere contro Medjedovic). Il Guardian oggi racconta il particolare scoramento dello spagnolo in un ampio approfondimento. Nel tennis però si tratta di un ostacolo mentale risaputo, che i professionisti sono sempre chiamati a fronteggiare. Niente cronometro, niente punti di riferimento temporali.
“Tutti gli altri sport vanno sul sicuro”, racconta Karen Khachanov, attuale numero 12 del ranking ATP. “Tutti sanno, per l’intera stagione, quando inizia con esattezza ogni gara, dove e contro chi. Nel tennis, questa è la parte più difficile. Bisogna adattarsi alle circostanze”. Di recente l’ha ammesso anche Iga Swiatek – fresca vincitrice di Wimbledon, che a Cincinnati in finale affronterà la nostra Jasmine Paolini –, ricordando “lo psicodramma del Roland Garros 2023”, aspettando la conclusione della semifinale tra Muchova e Sabalenka, prima di poter disputare la propria. “Aryna era avanti 5-2 e poi perse il terzo set: ho svolto il mio riscaldamento letteralmente per sette volte di fila. Fu un’altalena di emozioni: stress, indifferenza, adrenalina, frustrazione. Perfino sonno”.
Come Alcaraz oggi, nonostante tutto Swiatek avrebbe vinto quella partita (e infine pure il torneo). Ma fioccano i precedenti, a tutte le latitudini del tennis: avversari fianco a fianco, in trepida attesa a bordo campo; pisolini o partite a carte per allentare la tensione; e ancora autentiche maratone sportive dovute allo slittamento dell’orario. Al limite del surreale: all’Australian Open del 2023, in un match passato alla storia per intensità e assurdità, Andy Murray sconfisse Thanasi Kokkinakis in cinque set e più di altrettante ore di gioco. Il punto della vittoria arrivò alle 4:05 del mattino, ora locale. Una follia per tutti. Da allora infatti, ATP e WTA hanno adottato una nuova policy per porre un limite di buonsenso, se non altro alle sfide serali: oggi nessuna gara può iniziare dopo le 23, salvo approvazione speciale. Ma lo stress resta. E più che alla carenza di infrastrutture, si deve principalmente alle esigenze televisive e di pubblico. Basti pensare che il Cincinnati Open conta 31 terreni di gioco. Soltanto 9 però sono dotati di tutti i requisiti necessari per i match ufficiali. E appena 3 per quelli trasmessi in diretta. Si capisce allora che man mano che il tabellone si restringe, più si vengono a creare colli di bottiglia attorno alle partite di cartello. “Fa parte del nostro lavoro”. Carlos sbuffa, ma lo sa e ci convive. Lui come tutti gli altri.