All’improvviso, l’arena di New York si tinge d’azzurro vivo. Come mai era capitato nella storia degli US Open: una finale del torneo singolare WTA tutta italiana, contro ogni pronostico e davanti all’attonito pubblico americano. Era il 12 settembre 2015 quando Flavia Pennetta realizzava una delle imprese più inaspettate della storia del tennis, conquistando il primo Slam della sua carriera a 33 anni – la più anziana di sempre a riuscirci. Il tutto al termine di uno splendido derby contro l’amica Roberta Vinci, concluso sul punteggio di 7-6(4), 6-2. Oggi, per rievocare le emozioni di quella giornata, è uscita una produzione originale di DAO Sport – azienda di sport management leader di settore in Italia – con le parole della protagonista. “La sera prima della finale ho pianto”, inizia a raccontare Pennetta. “Ho pianto a lungo, tutto il giorno…”. Mai epilogo sarebbe stato più felice.
“Era un modo per scaricare la tensione. Tra una lacrima e l’altra sono andata in giro per New York, girovagavo, volevo sfogarmi. Ero sola e anche gli altri componenti del mio team lo erano, tutti divisi camminavamo per le strade della città che non dorme mai”. E che tra le sue mille luci offre i consigli giusti. “Decisi di chiamare un mio amico: uno di quelli che hanno sempre un’attitudine positiva. Prima del torneo mi aveva confessato un suo presento: era convinto che sarei arrivata in finale…contro Serena Williams. In fondo, si sbagliava di poco”.
Perché questo sarebbe successo, se dall’altra parte del tabellone Vinci – da assoluta underdog, contro la regina del tennis dell’epoca – non avesse realizzato uno dei risultati più inauditi che il tennis ricordi. E sulle spalle di Pennetta pesava anche questo confronto: chi batte la favorita, diventa la favorita a sua volta. “Il nostro primo incontro è avvenuto quando lei aveva 8 anni e io 9”, ricorda Roberta. “Nel tempo, le nostre strade si sono intrecciate più volte. Siamo state compagne di stanza al centro Federale di Roma, poi ci siamo perse e ritrovate. Dunque quella partita era già scritta, sapevamo a cosa stessimo andando incontro: era come affrontare uno specchio”.
Con in palio però il trofeo più importante. “A essere determinante sarebbe stato il bagaglio emotivo, era tutta una questione di nervi: dovevamo accettare che non avremmo giocato bene. E così in effetti è stato. Eravamo tese, tutte e due ci stavamo mettendo in gioco”. Game dopo game. “Alla fine, dopo l’ultimo colpo ho avvertito una sensazione di serenità che ancora oggi mi porto dentro al cuore. Ero in pace con il mondo, forse, per questo, come mi hanno sempre fatto notare, non ho fatto un’esultanza particolare, mi sono limitata a lanciare quella racchetta in aria. L’ultimo colpo sferrato a Flushing Meadows mi ha fatto tornare indietro nel tempo, pensando a tutto il percorso fatto, ma soprattutto a quella bambina che, muovendo i primi passi nel mondo del tennis, giocava con la terra rossa come se fosse sabbia. Nel cuore ho provato una sensazione di pace assoluta”.
E poi? “Quella partita mi diede una consapevolezza unica. Proprio per questo, anche io mi sono chiesta cosa sarebbe successo se avessi continuato a giocare. Allo stesso tempo, non c’è mai stata l’idea di aver preso una decisione sbagliata: guardandomi indietro mi direi di godermi di più quei momenti”. Flavia Pennetta si ritira dal tennis da campionessa, al termine di quella stagione. “Penso che quella vittoria, così come tutti i risultati ottenuti da me, da Francesca Schiavone, da Sara Errani e da Roberta Vinci abbiano contribuito a far vivere un’epoca di tennis incredibile con giocatrici eccellenti. In qualche modo, al femminile, abbiamo rotto una barriera e aperto gli occhi a tante altre giocatrici dietro di noi che magari pensavano di non essere in grado di raggiungere determinati obiettivi. Mi sento di dire che le nostre imprese ci abbiano motivato e spronato a vicenda: è stata una reazione a catena”. Arrivata fino a oggi, all’oro olimpico di Sara e Jasmine e a molto di più. Certe partite possono cambiare il corso di un movimento intero. Soprattutto se si giocano a Flushing Meadows, profanando il tempio americano di questo sport.