Hamas ha riconsegnato tutti gli ostaggi israeliani ancora vivi, al summit di Sharm el-Sheikh si è parlato dei prossimi sviluppi del piano di pace per il Medio Oriente e oggi l’Italia gioca una partita di qualificazione ai prossimi Mondiali contro la Nazionale di Israele. Gli eventi sono tutti collegati. C’è la politica, c’è il calcio, ovunque si sente echeggiare il nome di Donald Trump. Qualche settimana fa si vociferava di una sospensione di Israele da parte della UEFA, un’azione che avrebbe coinvolto la Nazionale e le squadre di club, maschili e femminili. La confederazione europea ha deciso di aspettare, o di non decidere, in attesa di nuovi sviluppi sul fronte diplomatico. Il tempo ha giocato in suo favore: l’opzione del ban, soluzione che avrebbe avuto pochi precedenti e molte conseguenze, è stata presto eclissata dal piano di pace presentato da Trump. È difficile capire quali saranno i prossimi sviluppi politici nella regione, ma c’è un accordo per il cessate il fuoco e la logica suggerisce che non si parlerà più di sospendere Israele.
In un mese è cambiato tutto, con la frenesia che ha la politica internazionale da quando c’è Donald Trump alla Casa Bianca. A metà settembre la commissione d’inchiesta del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite aveva parlato di «genocidio» in merito ai bombardamenti nella Striscia di Gaza. Pochi giorni più tardi aveva chiesto ufficialmente a FIFA e UEFA di sospendere Israele. In tempi recenti solo la Russia è stata esclusa dallo sport con un gesto così spettacolare, così visibile come quello che avrebbe riguardato Israele. Ma in quel caso la prima sanzione era arrivata dal Comitato Olimpico Internazionale. Perché l’invasione su vasta scala dell’Ucraina è iniziata il 24 febbraio 2022, appena quattro giorni dopo la fine delle Olimpiadi invernali di Pechino e nove prima dell’inizio dei Giochi Paralimpici. Con il lancio di missili e lo sconfinamento di truppe e carri armati verso Kyjiv, Mosca aveva violato la tregua olimpica. Cosa che, al momento, non può essere contestata a Israele.
La solidarietà del mondo sportivo di fronte alla situazione della Striscia di Gaza non è mai mancata, ma è arrivata quasi esclusivamente dal basso: tifosi e atleti in tutto il mondo si sono esposti pubblicamente. Ma questo non ha mai davvero messo a repentaglio l’attività sportiva israeliana. Perché fino alla settimana scorsa non c’era stata una vera pressione politica dall’alto, cioè da governi e leader politici. Lo aveva confessato il presidente della Uefa Aleksander Ceferin a Politico a inizio settembre: «Devo dire che con la situazione in Russia e Ucraina c’era una pressione politica molto forte. Ora è più una pressione della società civile che dei politici». In pratica, il presidente UEFA aveva fatto capire che il dramma umano in corso nella Striscia di Gaza non avrebbe avuto conseguenze sportive senza una presa di posizione forte della politica internazionale.
Nelle ultime settimane ci sono state diverse posizioni forti espresse dai governi occidentali, alcuni dei quali hanno riconosciuto ufficialmente la Palestina. Alcune voci parlavano anche di un presunta pressione politica del Qatar sul management UEFA per escludere Israele, poi era stata la stessa Federcalcio israeliana a smentire l’ipotesi. Ma forse il bombardamento del palazzo di Doha, dove si stava svolgendo un vertice diplomatico con i leader di Hamas per discutere del piano di tregua proposto dagli Stati Uniti, aveva avuto un peso. Magari la richiesta di un ban a Israele era anche spinta da una ritorsione del Qatar. Il piccolo Paese del Golfo è sempre più potente ai piani alti del calcio europeo e mondiale: investe in club, diritti televisivi e tornei, ha un enorme potere concentrato nella figura di Nasser Al-Khelaïfi, presidente del Paris Saint-Germain e dell’ECA, con un’influenza sconfinata sull’Uefa e sullo stesso Čeferin.
L’House of Cards internazionale visto nell’ultimo mese ci ricorda quanto sia stretto il legame tra calcio e politica. D’altronde anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu le aveva provate tutte per scongiurare la sospensione, giocandosi ogni gettone diplomatico – i pochi che gli sono rimasti dopo due gli ultimi due anni – rivolgendosi all’alleato più potente di tutti, gli Stati Uniti. «Faremo tutto il possibile per bloccare qualsiasi tentativo di escludere la nazionale israeliana dalla Coppa del Mondo», aveva detto un portavoce del Dipartimento di Stato americano la settimana scorsa. È un linguaggio da vertice diplomatico, non da dibattito calcistico. Non è un caso. Calcio e politica si intrecciano da sempre, ma oggi la loro relazione è arrivata a un livello nuovo, è diventata inscindibile.
C’è una grossa differenza tra la vicenda Uefa-Israele e gli esempi più recenti di sovrapposizione della sfera calcistica con quella politica. Qui non si tratta di Marcus Rashford che parla di mense scolastiche o di Colin Kaepernick che si inginocchia durante l’inno prima di una partita di football americano. Qui sono coinvolti direttamente i governi, i capi di Stato, dei sovrani quasi assoluti, con schiere di funzionari chiamati a usare lo sport come arma di pressione. Il discorso di Gianni Infantino all’Assemblea Generale dell’ONU, a fine settembre, è l’emblema di questa nuova era: il presidente della FIFA non ha parlato solo di nuovi regolamenti o di arbitri, ma si è avventurato in discorsi su pace, sviluppo, diritti umani. Infantino è al vertice di una comunità enorme con un’identità paranazionale e un linguaggio universale. Un’istituzione che distribuisce risorse a miliardi di persone in tutto il mondo. La FIFA non è una semplice Federazione sportiva: è una lobby globale che pesa come un’agenzia ONU. Forse il futuro delle relazioni internazionali si giocherà più a Nyon e a Doha che nei soliti palazzi della diplomazia.
Al di là delle valutazioni nel merito, non è escluso che a Israele si stata risparmiata la sospensione perché Netanyahu ha alleati potenti. Uno di loro è il più potente di tutti, è il presidente degli Stati Uniti e ha una voglia matta di usare il calcio e lo sport per fare politica. «Sarà il più grande evento sportivo della storia», aveva detto Trump lanciando il conto alla rovescia per i Mondiali 2026 dal suo Studio Ovale. Era raggiante, come sempre quando si tratta di fare propaganda: per la Casa Bianca organizzare i Mondiali significa soprattutto poter comandare l’agenda mediatica più o meno a piacimento.
A novembre 2026, Trump cercherà di ottenere il massimo possibile alle elezioni di midterm, che potrebbero azzoppare la sua amministrazione o ingrossare ancora la maggioranza Repubblicana al Congresso. Sarà un voto cruciale anche per il futuro del trumpismo come movimento politico: la sua importanza va oltre il mandato che si chiuderà nel 2028. Per questo i Mondiali serviranno all’amministrazione per mettere il presidente e i suoi slogan in bella mostra. L’interesse di Trump per lo sport non nasce con la sua discesa in politica. È stato un assiduo frequentatore degli US Open, è un membro della WWE Hall of Fame, tifa per i New York Yankees e già nei primi anni Duemila aveva messo a disposizione il suo casinò di Atlantic City per ospitare gli incontri della UFC. Eppure durante questo secondo mandato presidenziale tutto ha fatto un salto di scala, anche per quanto riguarda la presenza agli eventi sportivi. Durante la campagna elettorale, Trump ha assistito a incontri di UFC a Las Vegas e New York. Quest’anno ha visto dal vivo Super Bowl a New Orleans, la Daytona 500, i Campionati NCAA di Wrestling a Philadelphia e la finale maschile degli US Open. E negli ultimi giorni ha seguito da vicino i primi colpi della Ryder Cup.
L’immagine più potente però resta quella della Coppa del Mondo per club della scorsa estate. La scenetta in campo al termine della finale tra Chelsea e Paris Saint-Germain è stata a dir poco surreale. Sul prato del MetLife Stadium era tutto pronto per i festeggiamenti del Chelsea, Infantino e Trump consegnavano un trofeo enorme nelle mani del capitano Reece James. A un certo punto il cerimoniale si inceppa: se Infantino si fa da parte, dice qualcosa a Trump che sorride gagliardo, sembra annuire o forse non ha capito una parola, il presidente degli Stati Uniti resta imbabolato davanti ai giocatori del Chelsea, di fianco a James che lo guarda senza parole. Robert Sánchez ha l’ardire di urlare qualcosa a una spanna dal volto del presidente. A quel punto possono iniziare i festeggiamenti. James solleva il trofeo. Trump è stretto tra i calciatori, sembra sbattere su Cole Palmer, non si sposta di un centimetro: non rinuncia al centro del palcoscenico. È la politica che entra in campo, si prende la scena, vuole appropriarsi di tutto.