Myriam Sylla rigira tra le mani due medaglie. Le sue medaglie. «Sono tanto, tanto felice. Non saprei nemmeno esprimerlo a parole. Non vorrei mai smettere di sentirmi così». Apre i palmi delle mani, poi li richiude, serra i pugni per nascondere i due ori che stringe. «Quale vi svelo prima?». Ride, ci scherza su. È ancora sotto l’ebbrezza del trionfo mondiale, quando la incontriamo: sono passati soltanto una manciata di giorni dalla finalissima mondiale contro la Turchia. L’ottovolante emotivo di un’Italvolley femminile da pagine di storia ancora le pulsa dentro. Myriam svela le sue medaglie, le mette di fronte a sé. «Questa delle Olimpiadi era il mio sogno da bambina. Invece questa del Mondiale era un conto in sospeso. È come se fossi fatta di mattoncini e me ne mancasse uno. E adesso finalmente l’ho messo al suo posto». Quando è tornata con le sue compagne di squadra dalla Thailandia, dove l’Italia ha rivinto i Mondiali dopo ventitré anni, ha suggerito: cercateci un’altra definizione, al posto di “generazione di fenomeni” applicata all’Italia maschile degli anni Novanta allenata da Julio Velasco, lo stesso oggi alla guida di un’Italvolley femminile capace di mettere insieme oro olimpico e oro mondiale nell’arco di tredici mesi. C’è molto orgoglio, nelle parole di Sylla: lei, del resto, è una delle ragazze italiane che è stata capace di vincere tutto in carriera, con club e Nazionale. Ma c’è anche molta fatica, molto impegno, molta sofferenza anche, nel suo percorso. «Non so dire quale delle due medaglie mi ha fatto penare di più. Ho pianto, mi sono sentita triste, provata, in entrambe le competizioni. A volte pensavo di essere lontanissima dal mio obiettivo».
Come ce l’avete fatta? Come avete messo in piedi un altro capolavoro nonostante partite toste, tostissime, come quelle contro Brasile e Turchia, spuntate solo al quinto set?
Il desiderio di vincere era più forte di qualsiasi altra cosa. Il mio motto è sempre stato “finché mi batte il cuore, finché mi reggono le gambe”. Lì è stato veramente così. La testa è il motore di tutto: mi sono messa da parte la stanchezza, e quando il desiderio è così forte ti ritrovi a fare delle cose che non pensavi di riuscire a fare. Siete arrivate al Mondiale con gli occhi addosso.
È stato più difficile?
È stato difficile il prima. Pensi: abbiamo vinto l’oro olimpico, e ora ci sono i Mondiali. Riusciremo a confermarci? Riusciremo a essere all’altezza? Ti fai queste domande, perché la cosa più difficile è ricaricare le pile e ripercorrere quello che hai fatto un anno prima. In questo Julio è stato molto bravo. A inizio estate ci ha detto: “Giochiamocela come se alle Olimpiadi avessimo perso”. Ci siamo comportate così, da chi non aveva vinto l’anno prima. Non siamo state altezzose, non abbiamo sottovalutato le avversarie. E questo ha pagato.
A cementare questo spirito c’è anche un’enorme forza del gruppo.
A volte ci definiscono amiche, ma io lo trovo quasi sbagliato. C’è di più: sono compagne di squadra con cui scendi in battaglia. Con loro c’è una connessione unica. In campo, anche da un semplice piccolo movimento delle mie compagne, capisco cosa stanno per fare, cosa potrebbero fare e cosa no, e so come muovermi di conseguenza. Magari in certi gruppi, anche pieni di talento e di volontà, ci sono pezzi di puzzle che non si incastrano. Nel nostro caso il puzzle è venuto molto bene.
Quanto è decisivo in questo gruppo Julio Velasco?
È decisivo perché è un maestro di vita e perché conosce la materia, conosce la pallavolo. Sa quello che fa, sa come arrivare a un obiettivo e come portarti in quella direzione, senza forzature. Ti dà la libertà di gestirla come vuoi, ma alla fine l’obiettivo lo raggiungi. Prima di lavorare con lui, avevo letto qualcosa di lui, delle sue frasi, di quello che aveva fatto in passato. Stare a contatto con lui ti fa capire che effettivamente è bravissimo. I suoi insegnamenti rimangono. Dovremmo avere un foglio sempre con noi per appuntarci tutte le frasi che ci dice.
C’è stato qualcosa che ha detto nel corso del Mondiale che ti ha colpito particolarmente?
Io sono una perfezionista, devo fare le cose sempre al meglio. E a volte questo atteggiamento mi rende negativa. C’è stato un giorno durante i Mondiali in cui non ero felice della mia prestazione. Mentre facevo stretching, Julio mi si è avvicinato dicendomi: “Oh, calma, Sylla, calma”. Ho sorriso: aveva capito la situazione, anche se non avevo detto niente. Aveva intuito che non ero molto soddisfatta. Mi ha tranquillizzato dicendomi: il Mondiale è lungo, avrai tempo. E questo è un insegnamento che ho imparato da lui: a volte va bene così. Una frase che dice spesso che mi piace tantissimo è: facciamo con quello che abbiamo. Non devi essere perfetta, devi fare con quello che hai.
Tu hai detto questa è la squadra più forte di sempre.
E lo ribadisco.
Ma in questa squadra c’è stata anche tanta fatica, tanta sofferenza prima di arrivare in altissimo. Questo oro mondiale tu lo hai inseguito a lungo, da quella finale del 2018 contro la Serbia in cui una tua invasione aveva chiuso la partita. Sette anni dopo l’hai richiusa, però con un muro vincente.
Sì, sul momento non sono riuscita a pensare a niente, avevo proprio spento le emozioni. Pensavo solo a chiudere il set, a portarlo a casa. Il momento in cui ho saltato l’ho visto al rallentatore. Quando ho avuto la palla di fronte, mi son detta: o la prendo in faccia, e torna di là, o la muro. E così è stato. Dopo mi è tornato in mente quel momento contro la Serbia, una cosa che non mi sono perdonata per anni, e che non era neanche colpa mia. Prendersi questa rivincita è stato più che bello, appagante. Vuol dire che tutto il lavoro fatto per inseguire questo sogno ha dato i suoi frutti.
È stato un lavoro anche mentale?
Certamente, anzi sono a posto con me stessa quando dico che ho bisogno di aiuto, che ho bisogno di qualcuno con cui lavorare. Perché non siamo perfetti. Anche durante il Mondiale la mia psicologa è stata presente, e la devo ringraziare perché è stata impeccabile, anche se in situazioni del genere è facile sbagliare e farsi prendere dall’entusiasmo. Mi è capitato in passato che figure professionali del genere si facessero prendere dalla foga e superassero la linea di confine, cercando di risolverti la vita.
Alla fine, però, la pallavolo per te rimane un grande divertimento.
Lo è. Io mi diverto. Ho iniziato a giocare a questo sport da bambina e ho continuato a farlo per divertimento. È qualcosa che voglio trasmettere, e lo dice anche Julio: è un gioco. Lui fa l’esempio dei bambini piccoli quando giocano: per esempio con i Lego, li vedi serissimi, ma in realtà si stanno divertendo. Non stanno perdendo tempo o cazzeggiando, come magari può capitare più da grandi. Noi dobbiamo giocare esattamente come i bambini.
Com’è essere al centro delle attenzioni, è qualcosa che ti piace?
È bello. È bello perché diamo voce a uno sport diverso dai soliti. Ed è bello perché dà visibilità alle donne. Dimostra quanto l’unione delle donne possa creare qualcosa di magico. Le donne sono una forza e insieme arrivano a fare cose incredibili.
Effettivamente tu, come le tue compagne di squadra, sei un modello per moltissime.
È una cosa che mi piace soprattutto perché vorrei che arrivasse a loro un messaggio: che tutte si sentano sicure di loro stesse. Quello che sono è abbastanza, ha valore, non c’è bisogno di strafare. A volte le donne devono sgomitare il doppio per dimostrare di valere, devono faticare anche per ottenere il minimo indispensabile. E io non voglio che le ragazzine crescano con questa mentalità. E devono anche capire che non devono imitarmi, devono essere se stesse.
Hai mai pensato di parlare da leader?
In realtà non ho mai chiesto di essere un leader, non ne ho mai avuto consapevolezza. Mi viene naturale. Certo, parlo molto, ma credo che parlare in squadra sia un buon modo per creare un legame, per esprimere quello che provi, quello che senti, e anche quello che sentono gli altri.
C’è molto in te degli insegnamenti della tua famiglia?
Sono alla base di tutto. Non sarei quello che sono oggi senza la mia famiglia. I miei genitori mi hanno insegnato i valori di umiltà, rispetto e determinazione, e io penso di essere tutte queste cose insieme. Sono più che grata per tutto quello che mi hanno dato e spero che oggi si sentano ripagati.
Il tuo futuro immediato è il Galatasaray, in Turchia. Cosa ti aspetti?
Non mi sono posta nessun tipo di aspettativa, ho solo il desiderio di vivermela al cento per cento. È la prima esperienza all’estero e sono davvero curiosa. Non vedo l’ora, non so cosa aspettarmi. Voglio guardare con gli occhi di un bambino e rimanere stupita. E sono contenta che in Turchia ci sarà anche Alessia Orro (con il Fenerbahce, nda), che oltre a essere compagna di Nazionale è anche la mia migliore amica.
E tra dieci anni?
Vorrei essere una mamma. Una mamma divertente. Mettere su famiglia. E essere felice.