Quella del Mjällby campione di Svezia è una storia bellissima, ma che poteva avvenire solo in Svezia

Il club di un piccolissimo villaggio ha vinto il primo titolo della sua storia. L'ex tecnico Andreas Brännström racconta com'è arrivato questo trofeo, ma anche le anomalie e gli anacronismi del modello calcistico svedese.
di Emanuele Giulianelli 22 Ottobre 2025 alle 12:39

Fino a oggi, Hällevik – un piccolo villaggio di pescatori nel sud della Svezia di 1500 anime – era noto, a livello perlopiù locale, per la tragedia del 1862, quando sette pescatori di aringhe, tra cui un padre e un figlio, persero la vita annegando nel Mar Baltico. Nelle ultime settimane, però, il nome di questo minuscolo centro della contea di Blekinge, affacciato su un mare ventoso che porta odori di pesce e legno umido, è salito prepotentemente alla ribalta delle cronache di tutta Europa. E l’ha fatto per una storia di calcio, per una di quelle imprese che a cui non siamo più abituati. Battendo per 2-0 l’IFK Göteborg, la grande di Svezia per eccellenza, la squadra del villaggio di Hällevik, il Mjällby AIF, ha conquistato l’Allsvenskan, il massimo campionato nazionale, per la prima volta nella sua storia. E l’ha fatto con ben tre giornate di anticipo.

Un successo che sembra uscito da un antico racconto di epica nordica, visto che il club giallonero nel 2016 è arrivato a un passo dalla bancarotta e, fino a oggi, il Mjällby non era mai salito oltre il quinto posto, nel lontano 1982, trascorrendo oltre la metà della sua storia nelle serie inferiori. In oltre ottant’anni, poi non aveva mai alzato un trofeo: il massimo traguardo recente era stata una finale di Coppa di Svezia persa nel 2023. Fino a quando il vento del Baltico non ha deciso di cambiare direzione. Sul lungomare di Hällevik, in ottobre, il vento arriva dritto dal mare. È freddo, costante, spazza le barche e piega le bandiere. Non c’è molto altro: qualche casa di legno, un porto minuscolo, il piccolo stadio Strandvallen — 7mila posti, a ridosso di un campeggio per roulotte — che non rispetta neppure gli standard UEFA. Eppure, da qui, parte una delle storie più improbabili del calcio europeo contemporaneo.

Un club ai margini del mondo

«È un posto un po’ isolato, difficile da raggiungere», racconta in esclusiva a Undici Andreas Brännström, allenatore del Mjällby nel 2022, quando ottenne con i gialloneri il nono posto in campionato. «D’inverno è completamente morto. Ma nessuno si lamenta: la gente ha una mentalità di lavoro all’antica. È il classico alzati la mattina e fai la tua parte. È un club lontano dal business del calcio moderno, dove nessuno si sente migliore dell’altro». Per dare un’idea delle proporzioni, le grandi storiche del calcio svedese, Malmö, Hammarby e  lo stesso IFK Göteborg, hanno affrontato la stagione con un budget di anche otto volte superiore a quello dei pescatori del Baltico.

Nel 2015, il Mjällby era precipitato in terza divisione e nel 2016 si era salvato all’ultima giornata dal baratro della quarta: in meno di dieci anni, against all odds (per dirla con Phil Collins), lo stesso club è salito sul pennone più alto del calcio svedese. La rinascita del club e della sua piccola, meravigliosa, comunità ha il volto e il cuore di Hasse Larsson, direttore sportivo dal 1979, sopravvissuto a un tumore al cervello e a un cancro alla prostata, che per tre anni ha lavorato gratis pur di salvare il club.

Accanto a lui, l’allenatore Anders Torstensson, ex preside di scuola, a cui è stata diagnosticata una leucemia cronica non aggressiva. «Dicono che non si muore per lei, ma con lei», aveva raccontato tempo fa. «Quindi per ora posso vivere la mia vita come al solito». Insieme hanno ricostruito tutto, con pazienza, misura e un’idea di calcio che può esserci solo in Svezia. O meglio: un’idea di calcio grazie alla quale, in Svezia e solo in Svezia, possono succedere questi veri e propri miracoli calcistici.

La regola che salva il calcio

Il successo del Mjällby è anche il prodotto di una legge: il 50+1, il principio che in Svezia (come in Germania) garantisce che almeno la maggioranza delle quote di un club resti in mano ai soci o ai tifosi. Nessun fondo, nessun proprietario unico, nessun mecenate. La rinascita dei gialloneri è passata proprio da qui: nessun capitale estero, solo oculatezza e appartenenza: la comunità prima di tutto, il villaggio come famiglia.

In storie come queste, ci si chiede sempre quale sia la ricetta, quali siano gli ingredienti. Qui ce ne sono un paio che saltano immediatamente agli occhi: i giovani della squadra hanno più dimestichezza con le reti del porto più che con quelle dei grandi stadi da calcio e hanno l’età media più bassa del campionato (24 anni). Poi, un lavoro di scouting paziente: il danese Killerich, il norvegese Röjkjaer, l’islandese Bergström, il gambiano Abdoulie Manneh, il difensore pakistano Abdullah Iqbal sono tutti giocatori trovati nelle serie minori o in circuiti marginali, cresciuti dentro una struttura che funziona più come una scuola che come una moderna azienda calcistica. Brännström ci spiega: «Il presidente è un uomo molto intelligente, ha impostato sistemi di lavoro per ogni ruolo del club. E Larsson vive e respira Mjällby. Lui è nato e vive lì e ha costruito tutto questo negli anni. Anche nei momenti peggiori avevano un piano».

L’Allsvenskan, un’anomalia che funziona

In qualunque altro campionato, come detto, una storia così non sarebbe possibile. Ma la Svezia è diversa. Il suo calcio è rimasto volutamente “lento”, fuori dalle logiche della globalizzazione sportiva. Di fatto, l’Allsvenskan è tornata agli anni Settanta, e funziona proprio perché si è fermata. Le società sono legate ai territori, spesso di proprietà collettiva; i diritti televisivi sono distribuiti in modo equilibrato; la forbice economica tra grandi e piccole è controllata. È un sistema che non premia la ricchezza, ma la coerenza.

Il Mjällby, con i suoi mezzi limitati, ha quindi potuto competere in un ecosistema unico. In Svezia, di fatto, non ci sono barriere insormontabili: il Malmö non può scappare via, il Göteborg non può comprare il campionato. Tutti giocano sotto le stesse regole, e la differenza la fa la qualità delle idee. “This was never supposed to happen”, così hanno scritto i giornali locali nelle ore successive al trionfo. Prima dell’inizio della stagione, i bookmaker davano il Mjällby a 150:1, come se fosse una squadra destinata a un anonimo centro classifica, nota per la solidità difensiva, non certo per la fantasia. E invece, settimana dopo settimana, il club ha trasformato la costanza in slancio, la disciplina in forza. Con tre giornate d’anticipo, non solo ha vinto il titolo, ma minaccia di battere il record storico di punti dell’Allsvenskan.

Il momento più delicato è arrivato a luglio, quando la società ha venduto Niklas Röjkjaer, uno dei suoi centrocampisti più forti, ai danesi del Nordsjælland per 1,65 milioni di €. Una cessione del genere, del giocatore più creativo, che avrebbe tagliato le gambe a qualsiasi squadra, non ha scalfito la solidità del Mjällby. Anzi, è diventata la prova della solidità della società e del gruppo, che ha continuato a macinare successi, lasciando inalterata la propria struttura tattica, fino ad arrivare al massimo successo. È l’essenza del loro calcio: nessuno è più importante della squadra, nessuno si percepisce indispensabile.

In campo, il lavoro si vede: pressing alto, linee compatte, verticalità semplice ma letale. Fuori dal campo, c’è un gruppo che vive la quotidianità come una comunità. A Hällevik il calcio non è un marchio aziendale né un prodotto d’intrattenimento, ma un rito sociale. E lo stadio Strandvallen ne è il simbolo, trasformandosi,  nei giorni di partita, in un punto d’incontro tra pescatori, famiglie e vecchi tifosi: tutti uniti in un coro che si confonde con il rumore del mare.

Il peso della comunità

«Il campionato svedese è piuttosto aperto », spiega ancora Brännström. «Ogni anno possono succedere molte cose: le squadre migliori vendono tanti giocatori. Ma resta un grande divario economico tra il Mjällby e i club più grandi». Uno squilibrio che dimostra plasticamente come, anche nel calcio moderno, esiste un modo alternativo di giocare e vincere. Tutto molto scandinavo, insomma. Come il viceallenatore norvegese Karl Marius Aksum, che ha un dottorato sulla percezione visiva nel calcio d’élite: è lui ad aver introdotto il concetto di scanning, la tecnica di muovere attivamente la testa per leggere l’ambiente circostante prima di ricevere palla. Un dettaglio che racconta tutto: rigore scientifico e passione artigianale, la tradizione del lavoro unita alla curiosità del futuro.

Alla domanda se questa sia una favola o un progetto, Brännström risponde senza esitazione: «Entrambe le cose. Dietro ci sono persone molto competenti. Ma naturalmente è anche una follia, e loro stessi sono sorpresi. Alla fine è una favola, perché nel calcio moderno, dove i soldi contano più che mai, una cosa del genere dovrebbe essere impossibile».

Il Mjällby, da oggi, è diventato il comune più piccolo che ha mai preso parte a una delle competizioni principali UEFA, superando il precedente record dei romeni dell’Unirea Urziceni. La prossima estate, quando la Champions League comincerà, il mondo scoprirà dove si trova Hällevik. Forse, tra un anno, il Mjällby non sarà più campione. Forse tornerà a lottare per la salvezza. Ma resterà l’immagine di un club che ha vinto senza tradire se stesso, e di un Paese che, contro ogni logica del mercato, ha dimostrato che si può ancora credere nella comunità: «Molti giocatori andranno via verso squadre più grandi, quindi tutto dipenderà da come sapranno ricostruire. Non li vedo stabilmente tra le prime cinque ogni anno. Quella di Brännström è una consapevolezza quasi filosofica: la gloria, soprattutto in Svezia, non è eterna, ma è il risultato di un perfetto equilibrio. Momentaneo. Perché, in fondo, è sempre il vento del Baltico a decidere: a volte spazza via tutto, altre volte porta un miracolo.

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