Grazie a una “campagna acquisti” iniziata cinque anni fa, gli Emirati Arabi Uniti hanno fregato la FIFA e oggi hanno una Nazionale piena di giocatori naturalizzati

A partire dal 2019, gli Emirati Arabi Uniti hanno utilizzato i petroldollari per convincere e naturalizzare giovani promesse straniere, aggirando così i paletti della FIFA. E oggi, grazie a questo, possono andare al prossimo Mondiale.
di Redazione Undici 14 Novembre 2025 alle 19:52

La nuova espansione della Coppa del Mondo a 48 squadre sta regalando molte nuove storie incredibili, inaspettate. Improvvisamente l’orizzonte si è aperto per nazioni che finora risiedevano ai margini del mappamondo calcistico: dalle isole di Capo Verde a Curaçao, passando per l’Uzbekistan e il Suriname. L’aumento dei posti al Mondiale ha scatenato, tra le varie Federazioni nazionali, una vera e propria caccia al tesoro, intensificando lo scouting per scovare origini nascoste e velocizzare la naturalizzazione di nuovi talenti. Eppure, c’è chi è andato ben oltre la semplice ricerca di antenati. Per esempio gli Emirati Arabi Uniti, che hanno architettato un vero e proprio stratagemma di calciomercato: hanno iniziato a “comprare” i giocatori in blocco, convincendoli a trasferirsi e a giocare nel loro campionato con promesse economiche allettanti per poi concedere loro la cittadinanza. Il risultato è una Nazionale quasi completamente artificiale, costruita pezzo per pezzo con l’unico, freddo scopo di sfruttare il nuovo format di qualificazione e aggirare astutamente le leggi FIFA.

Già nel 2008, l’allora presidente FIFA, Joseph Blatter, aveva istituito rigidi paletti per prevenire la creazione di nazionali costruite unicamente con la forza del denaro. Il regolamento sull’idoneità per giocare nelle squadre rappresentative, ancora in vigore, impone una regola chiara: per ottenere la nazionalità sportiva, un giocatore «deve aver risieduto in modo continuativo per almeno cinque anni, dopo la maggiore età, nel territorio della Federazione in questione». Eppure, come evidenziato da Marca, è proprio su questo limite d’età che gli Emirati Arabi Uniti sono riusciti a trovare l’inganno. A partire dal 2019, hanno lanciato una campagna acquisti di massa di giovani promettenti già formati. Hanno importato ragazzi, spesso da Paesi come Brasile, Tunisia o Marocco, convincendoli a trasferirsi e giocare nel campionato locale con compensi sproporzionati che avrebbero cambiato la loro vita – e non solo. In questo modo, una volta trascorsi i cinque anni di residenza, il giocatore era pronto per essere integrato nella nazionale, eludendo di fatto l’intento originale della FIFA. Sei anni dopo, la situazione ci porta dritti al 2025: la Nazionale degli Emirati Arabi Uniti si sta giocando un posto al Mondiale, schierando una rosa interamente composta da giocatori che militano in squadre emiratine, ma la cui maggioranza è arrivata nel Paese in piena adolescenza.

L’espansione del Mondiale, dunque, ha innegabilmente aperto più porte alle federazioni minori. In Asia, per esempio, i posti per i partecipanti sono cresciuti di quattro o cinque – a seconda di come andranno i playoff – contro i soli tre slot in più destinati all’Europa. Parliamo di quei luoghi dove le amministrazioni sono più propense a rilasciare la cittadinanza per meriti sportivi, creando di fatto un sistema più accessibile a questi Paesi. Il risultato è che oggi c’è un nuovo concetto di rappresentative, meno “nazionali” e più “miste”. Così, nel primo spareggio decisivo per il Mondiale, giocato ad Abu Dhabi contro l’Iraq, gli Emirati Arabi sono scesi in campo schierando sei giocatori naturalizzati, atleti che prima del loro arrivo non avevano alcun legame con la cultura e la storia del Golfo. Brasiliani come Meloni e Pimenta, il portoghese Amaral, il marocchino Rabii, l’ivoriano Kouadio e l’argentino Nicolás Gimenez: tutti uniti, sotto il segno del petroldollaro, con l’unico obiettivo di battere l’Iraq e accedere allo spareggio intercontinentale verso la Coppa del Mondo.

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