Il cambiamento climatico e l’aumento delle temperature stanno travolgendo e stravolgendo il mondo, anche quello dello sport. È difficile realizzarlo ora, a inizio dicembre, quando l’estate sembra solo un lontano miraggio, eppure il caldo è stato il protagonista indiscusso della scorsa stagione: partite sospese durante il Mondiale per Club negli Stati Uniti, tennisti a bordocampo immersi in asciugamani imbottiti di ghiaccio per contrastare il sudore e temperature assurde sui circuiti di Formula Uno nel Sud-Est asiatico. Queste immagini di crisi rimangono attuali, nonostante l’arrivo dell’inverno. È per questo che la FIFA, attraverso le parole rivolte da Gianni Infantino ai club durante una delle ultime riunioni, ha annunciato un possibile cambiamento dei calendari del calcio. L’obiettivo sembra chiaro: riprogrammare l’attività per evitare di spingere gli atleti oltre i limiti imposti dal nuovo clima. Una riconsiderazione che avviene anche per cautelarsi in vista dei prossimi Mondiali, che si terranno in sedi ad alto rischio: dagli Stati Uniti e dal Messico, passando per la Spagna, il Portogallo e il Marocco, fino all’Arabia Saudita. E quindi, cambiare il posizionamento dei tornei nell’anno, ritrovandoci di nuovo a vedere la Coppa del Mondo sotto Natale, come già accaduto per quella del 2022, giocata in Qatar.
«Basta una mentalità aperta», ha sentenziato il Presidente della FIFA con semplicità disarmante. È un invito a staccarsi dalle tradizioni: addio al dolce ricordo dei Mondiali estivi, al mare e con gli amici. Per la FIFA, il torneo più bello del mondo deve diventare un modello di flessibilità e pura efficienza, slegandosi dalla sua storia. «Se si vuole giocare i Mondiali nello stesso momento ovunque, si potrebbe farli a marzo o a ottobre. Perché a dicembre non si gioca in una parte del mondo e a luglio non si gioca in un’altra» ha ribadito. Questo intento di riformare le date del Mondiale, concentrando i tornei internazionali in primavera o in autunno, nasconde una conseguenza inevitabile: il rischio di congestionare ulteriormente un calendario già saturo. Se i tornei internazionali si spostassero, le altre competizioni sarebbero costrette a occupare gli spazi lasciati liberi (inverno o estate), proprio nei mesi più estremi in alcune regioni.
Questo dibattito sui calendari si è innescato parlando del Mondiale in Arabia Saudita del 2034: la volontà non è solo quella di spostarlo dall’estate all’inverno, in modo da giocare a temperature più sopportabili, ma anche evitare la sovrapposizione con il mese sacro del Ramadan – che nel 2034 avverrà tra novembre e dicembre. Eppure, il problema va ben oltre la sola Coppa del Mondo nel Golfo. La prossima edizione negli USA, infatti, è destinata a svolgersi in condizioni climatiche complicate. Il rapporto Pitches in Peril (prodotto da Football for Future e Common Goal) ha valutato il rischio delle sedi 2026 – basandosi sui dati del Mondiale per Club di luglio – rivelando che 14 dei 16 stadi ospitanti, questa stagione, hanno superato le soglie di sicurezza per tre categorie: caldo estremo, piogge torrenziali e inondazioni. Ma il pericolo non è confinato alle aree notoriamente calde. Uno studio del Met Office, ad esempio, ha analizzato il caso della Gran Bretagna (sede degli Europei 2028 e del Mondiale femminile 2035), prevedendo entro il 2050 aumenti significativi delle temperature che renderebbero impossibile giocare anche lì. Lo stesso Met Office, quattro anni fa, aveva già simulato per Wimbledon 2059 temperature fino a 40 gradi a luglio, proiettando il torneo – che già quest’anno ha creato grandi problemi – in una crisi che si può considerare irreversibile, definitiva.
L’urgenza di rivedere le date, tuttavia, non è un’ossessione solo calcistica, ma una riflessione che coinvolge l’intero panorama sportivo. Lord Coe, presidente di World Athletics, aveva già avvertito che il calendario degli sport olimpici doveva essere «riprogettato» dopo i drammatici problemi di calore e umidità emersi al Mondiale di Tokyo. Allo stesso modo, anche il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) ha indicato che il periodo delle Olimpiadi estive (tra il 15 luglio e il 31 agosto) potrebbe non essere più sostenibile. Il messaggio è dunque univoco: l’era della tradizione estiva potrebbe presto finire, superata dalla necessità di tutelare la salute degli atleti e riadattarsi al cambiamento climatico. E la vera sfida sarà quella di conciliare la ricerca di pura efficienza con quel vincolo emotivo, fatto di ricordi, a cui i tifosi non sono disposti a rinunciare.