Quando un anno fa Ruben Amorim lasciava lo Sporting Lisbona, da campione in carica del Portogallo, per molti tifosi biancoverdi era sembrata la fine di un ciclo vincente che l’allenatore avrebbe esportato a Manchester. Niente di più sbagliato: oggi lo United continua a vivere di stenti – senza che Amorim ne abbia saputo invertire la rotta, anzi – mentre lo Sporting ha conquistato un’altra Primeira Liga. Ed è in piena corsa per vincere la terza di fila in questo 2025/26, anche dopo aver ceduto diversi pilastri della squadra (su tutti Vikor Gyokeres e i suoi gol). Questione di alchimia in spogliatoio, di ottime prestazioni che si susseguono? Senz’altro. Ma soprattutto, a detta della nuova guida tecnica biancoverde, lo Sporting funziona come un orologio. Letteralmente: il suo, un Casio da 20 euro dal quale non ha nessuna intenzione di separarsi.
Prendere o lasciare, è il calcio senza fronzoli di Rui Borges. Un allenatore figlio della gavetta, per ogni scalino della piramide calcistica portoghese. E per questo determinato a non dimenticare mai le proprie origini. Quand’era sulla panchina del Mirandela – il piccolo club del suo paesino natale, nell’entroterra a 150 km da Porto – Borges aveva iniziato a indossare questo benedetto e assolutamente ordinario Casio nero. Era il biennio 2017-2019. Da allora, la sua carriera ha vissuto una progressiva escalation: Académica, Nacional, Moreirense, Vitória Guimarães. Infine lo Sporting. Che dopo cinque giornate, oggi sarebbe direttamente qualificato agli ottavi di Champions League.
“È l’orologio, è l’orologio!”, sembra dire l’allenatore. Come racconta The Guardian, in questi mesi la Casio – incredula di poter fare da sponsor a così alti livelli, in un mercato dominato da ben altri brand – ha contattato lo stesso Rui Borges per offrirgli quantomeno dei nuovi modelli, più aggiornati e consoni alle notti europee. Ma niente da fare. Lo stratega dello Sporting insiste con l’originale: questione di superstizione, ben oltre il dispositivo. A tal punto, si racconta, che Borges è solito sedersi allo stesso tavolo dello stesso ristorante. O indossare molto spesso il gilet: a un certo punto, la scorsa stagione, la squadra aveva cominciato a canzonarlo per il suo outfit. In tutta risposta, l’allenatore ha ribadito che quel gilet avrebbe aiutato lo Sporting a laurearsi campione di Portogallo. Altre risate, o forse no. Non sapremmo mai come sarebbe andata altrimenti: fatto sta che Borges non se l’è tolto e i biancoverdi hanno trionfato – sull’imprescrutabile consequenzialità dei due eventi, evitiamo di spingerci oltre.
“Per noi è sempre stato chiaro che fosse un leader”, dice di lui il presidente del Mirandela, la squadra che lanciò Rui Borges. “Già da giocatore e capitano era qualcuno in grado di unire il gruppo e portare tutti attorno a lui. Era una grande studioso e amante del calcio, da giovane allenatore ha impiegato ore e ore di lavoro quotidiano per aggiornarsi e migliorarsi. Ci è riuscito e ha presto raggiunto i vertici. Quando lasciò il nostro club, disse che nel giro di due o tre anni sarebbe finito in massima serie. E così è stato”. Il conto alla rovescia era custodito nelle lancette di quel Casio: guai a dire di no.