Era da diversi mesi, ormai, che tanti calciofili di tutto il mondo aspettavano l’ufficialità della notizia. E ora è arrivata: Carlo Ancelotti sarà ct del Brasile ai prossimi Mondiali. Inutile girarci intorno: questa nomina è una notizia enorme e chiude tantissimi cerchi, quindi è una specie di sogno realizzato per chi guarda allo sport attraverso una lente un po’ passatista, non per forza nostalgica ma inevitabilmente romantica. Questo gruppo di tifosi/appassionati ha vacillato nel momento in cui sono iniziate a circolare delle voci sulla presunta rottura delle trattative tra Ancelotti e la Federcalcio brasiliana, su una faraonica offerta arrivata dall’Arabia Saudita che avrebbe fatto cambiare idea all’allenatore del Real Madrid. Poi, però, tutto è andato “a posto”: Ancelotti ha aspettato che la stagione regolare del Madrid si esaurisse, non importa se bene o male, poi ha firmato tutti gli accordi e ha fatto annunciare il suo arrivo sulla panchina della Seleção. In questo modo ha chiuso l’ultimo cerchio, appunto, di una carriera strepitosa e irripetibile. E l’ha fatto con una mossa bellissima che ricorda da vicino le nostre partite di Football Manager. Solo che questo non è un gioco: è la realtà.
Perché ha senso parlare di chiusura del cerchio? Semplice: perché Ancelotti è stato talmente grande che si è concesso tutto quello che poteva concedersi. Ha vinto e perso qualsiasi trofeo, nei modi più esaltanti e in quelli più atroci; ha lasciato il suo segno indelebile in cinque club storici dei campionati più importanti al mondo, tutti vinti almeno una volta (unico allenatore di sempre a compiere questa impresa); ha fatto marcia indietro con due stralunati divertissement, al Napoli e all’Everton, e poi si è rimesso al comando del Real Madrid come se nulla fosse – infatti ha vinto e rivinto tutto, di nuovo.
Insomma, l’unica cosa che gli mancava era proprio guidare una Nazionale. Solo che Carlo Ancelotti, e in questo senso il nome è una garanzia, non poteva accontentarsi di guidare una Nazionale qualsiasi: poteva e doveva sedersi sulla panchina della Nazionale più grande di tutte, da prima scelta incontrastata – con la seconda al tredicesimo posto – e quindi come unico possibile salvatore della patria, considerata anche la penuria di allenatori locali anche solo lontanamente all’altezza di guidare la Seleçåo. Tutto questo, per altro, da primo ct europeo sulla panchina del Brasile, da primo ct straniero dopo ottant’anni e più.
Insomma, Ancelotti al Brasile è una cosa fantastica perché è tutto esattamente come dovrebbe essere: l’allenatore più vincente della storia del calcio di club – o comunque quello che ha vinto più trofei importanti in più club diversi – corona la sua carriera accettando l’offerta di allenare la Nazionale più vincente della storia. Ma in realtà si può e si deve andare oltre, si può e si deve pensare a questa operazione anche in chiave postmoderna. Nel senso che, con il Brasile che sceglie e che assume Ancelotti, per altro pochi mesi dopo l’arrivo di Tuchel sulla panchina dell’Inghilterra, è iniziato a crepare un muro che sembrava dover rimanere in piedi per sempre: quello per cui il mercato dei commissari tecnici debba essere per forza legato a logiche di appartenenza nazionale.
Come al solito, come gli succede sempre da quando è diventato un allenatore, Ancelotti deve essere quindi considerato un precursore, un innovatore, uno che è riuscito a riadattare il suo modello storico alla contemporaneità. L’ha fatto duemila volte lavorando al suo calcio liquido ma anche profondamente identitario, perfetto per i top club di tutta Europa, lo ha già fatto iniziando questa sua nuova vita da ct, convincendo il Brasile a rompere una tradizione secolare e ad affidarsi al buon senso. Il suo, quello di Ancelotti, ma anche quello che consigliava di mettere una squadra di stelle – Vinícius Júnior, Raphinha, Rodrygo, Savinho, Bruno Guimarães, Gabriel Martinelli, Gabriel Jesus, Endrick, Éderson, Marquinhos – nelle mani di un tecnico che da trent’anni esatti (la carriera di Ancelotti è iniziata nel 1995, alla Reggiana) dimostra di essere il migliore di tutti, quando si tratta di assemblare il talento.
E ora, a suggellare tutto questo discorso, pensate solo per un attimo all’ipotesi – neanche tanto velleitaria, stiamo sempre parlando del Brasile – per cui Ancelotti, tra un anno e qualche giorno, vada negli Stati Uniti e vinca il Mondiale. Sarebbe il suo trofeo numero 32, lo porterebbe a essere il primo ct a conquistare la Coppa del Mondo guidando dei giocatori con cui non condivide la nazionalità, lo trasformerebbe in una specie di mito vivente e praticamente inarrivabile. Perché sì, Lippi e Del Bosque hanno vinto il titolo mondiale dopo aver vinto una e due Champions League, rispettivamente. Ancelotti però è l’unico ad averne vinte cinque, è l’unico ad averne vinte più di una con due club diversi, è l’unico ad averne almeno una in tre decenni differenti. Già così sembra una carriera da Football Manager, e invece e la realtà. Nel caso dovesse/dovessimo aggiungerci anche un Mondiale, beh, andremmo oltre qualsiasi immaginazione.
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