Come fa il piccolo Eibar a sopravvivere tra i grandi?

Dal 2014 a oggi i baschi hanno sempre centrato la salvezza, pur con risorse economiche limitate.

Nel 2014 l’Eibar era stato promosso per la prima volta nella sua storia nella massima serie del campionato spagnolo: per la squadra basca, espressione di una piccola cittadina di circa 27mila abitanti, un’autentica impresa. Sette anni dopo, l’Eibar è ancora lì: da allora non ha più lasciato la Liga, riuscendo a impressionare tutti e a centrare l’obiettivo salvezza anno dopo anno. Così le imprese si sono moltiplicate, a maggior ragione considerate le risorse con cui opera la società basca: cifre chiaramente lontane da quelle delle big del calcio spagnolo, ma decisamente inferiori pure rispetto a quelle della diretta concorrenza. Con uno dei budget più risicati nel panorama delle principali divisioni europee (ma lo stesso valeva per l’anno della promozione in Liga), come riesce ogni anno l’Eibar a raggiungere il proprio obiettivo?

Il Guardian ha intervistato Fran Garagarza, il direttore sportivo della società e l’artefice di quello che nel pezzo non si stenta a definire “miracolo”. È dalle stanze di Garagarza, che ricopre il suo ruolo dal 2011, che partono le fortune del piccolo Eibar: da un lato c’è una continuità tecnica garantita dall’allenatore José Luis Mendilibar, da cinque anni alla guida del club, dall’altro c’è, appunto, un recruiting minuzioso e impeccabile. Perché non è assolutamente facile, con risorse limitate, costruire una squadra in grado di galleggiare sopra la zona retrocessione ogni anno, e farlo secondo criteri di “sostenibilità” economica. Basti pensare che, in questi ormai sette anni di calcio spagnolo trascorso ai massimi livelli, l’acquisto più costoso del club è stato Edu Expósito: appena quattro milioni di euro.

Il gruppetto di lavoro di Garagarza passa al setaccio ogni profilo ideale per l’Eibar, eppure sugli schermi delle partite visionate non appaiono né Serie A, né Premier League, né Bundesliga. Anche la Liga non è il mercato privilegiato dallo scouting del club: si finisce per pescare nelle categorie minori, sempre per una questione di sopravvivenza economica. La rosa attuale, per esempio, è costata meno di 25 milioni di euro in tutto. «La gestione finanziaria è sempre centrale per noi, ad ogni livello», sottolinea Garagarza. «L’idea è sempre stata: se ho cinque, spendo quattro. Per esempio, l’anno scorso abbiamo venduto bene (Joan Jordán al Siviglia per12 milioni e Rubén Peña al Villarreal per 8), ma non spendiamo mai tutto quello che abbiamo incassato. Non si tratta solo dei soldi investiti per gli acquisti, ci sono anche gli stipendi. Avere un equilibrio, gestire al meglio i rinnovi, questi sono alcuni dei compiti più difficili. I soldi non sono tutto, ma se non riesci a soddisfare la richiesta di stipendio dei giocatori, lascia perdere: non verranno. Solitamente, per convincerli parliamo alla loro famiglia, agli amici, gli mostriamo quello che possiamo offrirgli: gli investimenti nello stadio, nelle strutture del club, la stabilità che ha raggiunto il club».

Garagarza poi riavvolge il filo della storia, per raccontare l’inattesa promozione in Liga del 2014: «Non ce lo aspettavamo: avevamo costruito una squadra per salvarsi in Segunda, con pochi soldi e giocatori in prestito. Ma poi ci siamo ritrovati in Primera, e pure lì non potevamo competere con alcuni club di seconda divisione nella corsa ai giocatori. All’interno della società c’erano due sensazioni dominanti: una era il timore del campionato, l’altra era il piacere di goderselo. Giocare a Madrid, oppure un derby, l’aumento degli incassi, e poi saremmo retrocessi, non potevamo sopravvivere». L’Eibar chiuse la prima stagione in Liga al terzultimo posto, ma un illecito amministrativo costò la retrocessione all’Elche. Così la squadra basca ottenne la salvezza: «Fu come un regalo inaspettato».

In quella squadra che giocò il primo storico campionato dell’Eibar in prima divisione c’erano sette giocatori dell’undici titolare che erano rimasti dagli anni della terza serie. Dopo la salvezza inaspettata, all’interno del club la visione cambiò: »Dobbiamo investire». Così negli anni l’Eibar si è progressivamente allontanato dai posti più pericolosi della classifica, non andando mai più giù del quattordicesimo posto e arrivando nono nel 2017/18, accarezzando persino il sogno europeo. Non vuol dire che all’improvviso il club si sia messo a spendere pesantemente, ma lo ha fatto parallelamente all’aumento dei ricavi. Perché alla fine l’equilibrio è tutto: «Abbiamo fatto del nostro meglio», dice Garagarza, «ma abbiamo anche beneficiato delle circostanze e del fatto che alcuni grossi club sono stati gestiti in modo pessimo. Alcuni hanno debiti, sanzioni; noi non abbiamo mai sperimentato tutto questo, non abbiamo mai voluto vivere al di sopra delle nostre possibilità. Abbiamo anche un piccolo modello di soci, con la responsabilità delegata alle giuste persone, piuttosto che un proprietario solo che decide tutto autonomamente, e che magari a volte può compiere scelte sbagliate».