Perché i portieri rischiano così tanto con il pallone tra i piedi?

Gli errori degli ultimi giorni, da Meret a Buffon fino a Radu, sono stati eclatanti. Ma in realtà sono il frutto di una tendenza inevitabile, e che riguarda tutti.

Qualche giorno fa, Rafa Benítez ha rilasciato una lunga intervista a un inviato speciale di The Athletic: Alan Shearer. Parlando del calcio che cambia, il tecnico spagnolo ha detto che, insieme al suo staff, sta dedicando molte ore all’osservazione e allo studio della costruzione da dietro,  per provare a tracciare un quadro credibile del rapporto costi/benefici che quest’ultima comporterebbe nello sviluppo dell’azione: «Stiamo guardando ogni partita, le squadre d’alta classifica, quelle di medio classifica e quelle che lottano per non retrocedere, vogliamo vedere come giocano. Se giocano corto, giocano solo corto, oppure corto e medio, o ancora passaggi corti e poi lanci lunghi? Cosa significa per il Paris Saint-Germain giocare corto? E per il Chelsea? Stiamo analizzando tutte queste cose. Non sto dicendo che le squadre non dovrebbero giocare corto ora che gli avversari possono entrare nella tua area, ma posso dire che non sono molte situazioni in cui la costruzione da dietro porta a segnare un gol».

Pochi giorni dopo, Alex Meret avrebbe compromesso Empoli-Napoli regalando il pallone a Pinamonti nella sua area piccola, dopo un rinvio attardato e infine mancato. E ancora: durante Perugia-Parma, sul punteggio di 1-0 a favore degli umbri, Buffon manca clamorosamente il controllo su un innocuo retropassaggio di Oosterwolde e permette a Olivieri di segnare a porta vuota il gol più facile della sua carriera. Tre giorni dopo, nei minuti finali di Bologna-Inter, Radu commette un errore pressoché identico e consegna al Milan la vetta della classifica in un ribaltamento dei rapporti di forza persino crudele per i tempi e le modalità con cui avviene; esattamente un anno fa Sinisa Mihajlovic, guarda caso allenatore proprio del Bologna, in un’intervista a Esquire disse che «a me piace quando riusciamo a costruire dal basso ma, allo stesso tempo, sono uno che non ama rischiare: se di fronte abbiamo una squadra che pressa bene preferisco che la palla vada subito in avanti. La cosa importante è valutare i calciatori che ho ha disposizione, le loro qualità tecniche, le loro attitudini, quanto si sentono a proprio agio in determinate situazioni. Ad esempio se ho un portiere che non è particolarmente bravo con i piedi non posso chiedergli di interpretare il ruolo come fa Reina: magari posso allenarlo e farlo migliorare nella sua tecnica di base ma, senza determinate caratteristiche non sarà mai in grado di essere quel tipo di portiere, quindi inutile forzarlo a fare cose che non gli sono congeniali».

L’errore più comune che si possa fare nel racconto di queste e altre giocate, anzi che è già stato fatto, è quello di considerarle come un errore concettuale e non tecnico. O, comunque, come un errore conseguente a una forzatura della natura stessa del gioco, della rinuncia alla componente utilitaristica a vantaggio di quella estetica, della scientifica volontà di snaturare sé stessi pur di riprendere i principi del calcio di Guardiola, Klopp, Nagelsmann e Tuchel pur non avendo a disposizione una rosa, del materiale tecnico e umano comparabile. La spiegazione, in realtà, è molto più semplice e immediata e riguarda ciò che oggi una squadra deve provare a fare per competere ad alto livello, indipendentemente dalla sua base di partenza. Qualche settimana fa, ad esempio, commentando il mancato rinvio di Zack Steffen nella semifinale di FA Cup contro il Liverpool, proprio Guardiola ha detto che «ha sbagliato ma avevamo bisogno che lui provasse quella giocata perché questo è il nostro modo di giocare a calcio. Per fare il nostro gioco noi abbiamo bisogno che anche il portiere si assuma certi rischi». Si tratta di una dichiarazione significativa perché sposta il focus del dibattito su un piano più aderente alla realtà attuale, e cioè che un errore d’esecuzione del portiere in fase di prima costruzione, nel suo essere ontologicamente più grave di altri, equivale a quello di un difensore, un centrocampista o un attaccante; e, soprattutto, che questo errore origina da una necessità e non certo da un vezzo stilistico o dallo spirito d’emulazione a tutti i costi.

È una questione che riguarda il bilanciamento tra vantaggi e svantaggi, ma anche le nuove caratteristiche di base e l’evoluzione del ruolo, con il portiere che ormai può – anzi: deve – essere considerato un giocatore di movimento a tutti gli effetti, quindi una parte attiva in fase di costruzione dell’azione, di consolidamento del possesso, di risalita del campo senza dover ricorrere a soluzioni casuali ed estemporanee: «Mi sono sempre sentito a mio agio con la palla tra i piedi, e questo mi è di grande aiuto durante le partite. Penso sia un talento naturale. Quando ero nelle giovanili del San Paolo, cercavo sempre di dimostrare le mie abilità con i piedi» disse Ederson nel 2018 a FourFourTwo.

Recentemente, poi, su soccerment.com è stato pubblicato un grafico che spiega l’importanza degli estremi difensori dei top-5 campionati europei nell’avvio dell’azione attraverso la misurazione di una pass accuracy mai al di sotto del 70% – anche da parte di alcuni potenziali “insospettabili” come Donnarumma, Kepa, Sommer e Koen Casteels del Wolfsburg – e che invita ad andare oltre l’unicità di portieri riconosciuti universalmente bravi con i piedi come Neuer, Ter Stegen, Alisson, Reina. Nell’aprile 2020 Adrian Clarke pubblicò sul sito ufficiale della Premier League un interessante focus statistico che dimostrava come il numero di tiri arrivati al termine di un’azione avviata con un passaggio corto fosse molto superiore a quello dei tiri originati da un rinvio lungo (36 a 21), al netto di un rischio maggiore nel rapporto tra conclusioni e reti subiti in caso di recupero palla da parte degli avversari. Più interessante ancora era il dato relativo alla progressione media sul campo: i rinvii dal fondo con una gittata pari o superiore ai 40 metri garantivano un guadagno di 38 metri a fronte dei 49 guadagnati con un primo tocco più corto.

Un po’ di rischi, bellissimi e assurdi, presi da Manuel Neuer palla al piede

Nel 2021/22 questa tendenza si è ancor più radicalizzata, non solo in un campionato d’avanguardia tattica come la Premier League: nella stessa Serie A si va da un minimo di 707 (Udinese) a un massimo di 1496 (Fiorentina) passaggi effettuati dai portieri, con appena sette squadre – Cagliari, Genoa, Verona, Salernitana, Spezia, Torino e Udinese – sopra la soglia del 50% per ciò che riguarda i lanci più lunghi di 35 metri in situazione dinamica. In caso di rinvio dal fondo le squadre che rilanciano lungo diventano otto – a quelle già menzionate si aggiunge l’Atalanta – ma con una percentuale sul totale sensibilmente più alta e che va dal 54% dell’Udinese al 90% del Torino.

La stessa Inter di Inzaghi, la squadra che rischia di pagare un prezzo altissimo per l’errore di Radu, è parte di questo trend: pur mostrando delle tendenze verticali chiare, anche se non ricerca il dominio solo attraverso il possesso palla, è tra le squadre che coinvolge di più i propri portieri. Lo dicono i dati: gli estremi difensori nerazzurri hanno accumulato 1016 passaggi complessivi e sono tra quelli che rilanciano meno (tra il 29 e il 31%) il pallone, e per meno metri (tra i 25 e i 27). Tradotto: i tanti errori, o quello che percepiamo come un aumento del numero degli stessi, non dipendono per forza dalla natura del passaggio o dalla zona di campo in cui viene effettuato, ma dal numero di tocchi e dal maggiore coinvolgimento che oggi viene richiesto a un portiere moderno. È una conseguenza puramente quantitativa: aumentano i numeri dei passaggi effettuati dai portieri, aumentano i loro errori.

Al di là di numeri e statistiche, comunque, la sensazione è che il dibattito si sia arenato sul cortocircuito filosofico e culturale riguardante l’opportunità di costruire così spesso con il portiere, che si è poi tradotto in una generalizzazione di sistema per certi versi inevitabile. Nel febbraio 2021, su Undici, facevamo riferimento alla «sensibilità calcistica» dei singoli giocatori come l’unico discrimine possibile per poter distinguere tra una forzatura evitabile e un “normale” errore di gioco. Oggi è necessario andare ancora più oltre nella misura in cui la costruzione dal basso che parte dal portiere è diventata una necessità legata allo sviluppo e all’evoluzione del gioco e del regolamento, uno strumento utile per attirare e poi eludere il pressing avversario, la prima fase di un attacco posizionale ben portato che mira ad ampliare e restringere il campo a piacimento, il mezzo con cui raggiungere il fine ultimo della progressione attraverso l’occupazione degli spazi giusti al momento giusto. Quando ci riferiamo agli altri dieci giocatori queste sono tutte situazioni in cui l’errore è stato già accettato, messo in conto, per certi versi persino giustificato in relazione all’intensità e alla riduzione dei tempi di azione e reazione; iniziare a farlo anche quando a sbagliare è l’undicesimo, cioè il giocatore che non dovrebbe e non potrebbe sbagliare, significherebbe iniziare a riconoscere che l’errore non è una questione generale ma particolare. E, in quanto tale, inevitabile nella forma in cui si manifesta, fosse anche un rinvio fatto male o un controllo mancato.