C’era una volta il tennis svedese

Egemone per anni, con il trio Borg-Wilander-Edberg, la Svezia oggi è sparita dal tennis. Motivi e ricordi dell'era d'oro raccontati in un libro, Game, Set, Match.

Fate una prova. Andate sul sito dell’ATP e cercate i giocatori svedesi in classifica. Non ne troverete nessuno tra i primi cento. Il primo è Elias Ymer, numero 144, per il secondo dovrete scendere fino al numero 316, dove troverete Christian Lindell. Eppure c’è stato un tempo nemmeno troppo remoto in cui nella galassia ATP le stelle svedesi erano le più brillanti e ammirate. Tre numeri uno in un solo decennio: un risultato sorprendente per un Paese di appena otto milioni di abitanti. Che tipo di miracolo sportivo ha trasformato Björn Borg e dopo di lui Mats Wilander e Stefan Edberg nei tennisti più forti del mondo? E quali sono i motivi che hanno determinato poi una decadenza della scuola e del movimento che si protrae ancora oggi?

Due giornalisti, Mats Holm e Ulf Roosvald, si sono messi in mente di raccontare la Golden Era del tennis svedese e hanno raccolto il materiale in un ricco volume, appena pubblicato anche in Italia grazie ad Add Editore (Game, Set, Match, pagine 386; euro 16,00). Non spaventino le quasi quattrocento pagine, il libro è spassoso e divertente, ricco di aneddoti, testimonianze e contributi, più o meno tecnici e più o meno folcloristici, dei diretti interessati. Noi abbiamo letto Game, Set, Match con grande piacere e ne abbiamo approfittato per rivolgere alcune domande ai due autori. «Il tennis divenne uno sport popolare in Svezia a metà anni Sessanta, quando la tv trasmise degli avvincenti match di Coppa Davis tra Italia e Svezia», ci ha detto Mats Holm, «quelle partite in televisione catturarono l’attenzione di molte persone, e giocatori come Jan Erik Lundqvist divennero celebrità nazionali. Anche i giocatori italiani, Nicola Pietrangeli e Fausto Gardini, divennero famosi. Il crescente interesse per il tennis fu la ragione per cui Borg scelse di impugnare una racchetta da piccolo. Altrimenti, con tutta probabilità, avrebbe scelto una mazza da hockey. Così, gli svedesi hanno iniziato a giocare a tennis ben prima di sapere chi fosse Björn Borg. L’esplosione di Borg trasformò poi l’interesse collettivo in un’autentica moda. Il tennis diventò lo sport che tutti volevano praticare e le scuole, per prime, offrivano la possibilità di farlo».

MAY 1985: BJORN BORG OF SWEDEN AT THE MONACO OPEN TENNIS TOURNAMENT IN MONTE CARLO. Mandatory Credit: Steve Powell/ALLSPORT
Bjorn Borg al torneo di Montecarlo, nel 1985 (Steve Powell/Allsport)

 

Prima degli anni Sessanta, il tennis era percepito come un passatempo reale. Il primo tennista svedese fu il principe ereditario Gustav (il futuro re Gustav V), il quale, nei quattro mesi trascorsi in Inghilterra nel 1879, si innamorò a tal punto del tennis da insegnare il gioco ai suoi amici una volta tornato in Svezia e far realizzare i primi due campi della Scandinavia, uno in erba e uno in terra. Il Paese dovette attendere quasi un secolo prima di vedere però un giocatore dotato di talento e carisma, capace di giocare alla pari con i migliori: si trattava di Jan Erik Lundqvist, che nel 1964 arrivò ad occupare la terza posizione della classifica. Fu grazie a lui che il tennis riuscì ad emanciparsi dalla nicchia e ad acquisire popolarità, e grazie ai suoi match trasmessi in televisione che nel 1965 un commesso di alimentari di nome Rune Borg regalò a suo figlio di nove anni una racchetta da tennis. Fu il punto di non ritorno. Björn Borg, o björnborg detto tutto in una volta, cambiò la Svezia, molto più degli slalom di Ingemar Stenmark e delle nazionali di calcio e hockey. Gli anni Settanta sono stati il periodo nel quale «in Svezia il tennis diventò uno sport per tutti, mentre per il resto del mondo la Svezia e il tennis diventarono sinonimi».

Borg giocò il suo primo anno da professionista nel 1973, e l’anno successivo si aggiudicò, a soli 18 anni, il suo primo Roland Garros. Fu l’iniziò di una carriera straordinaria, che ne fece, complice anche un riconoscibilissimo look griffato Fila e i capelli lunghi tenuti da una fascetta tergisudore, un totem degli anni Settanta oltre che il tennista più forte della sua era. Quando nel 1983 si ritirò a soli ventisei anni (del suo tentativo di rientrare nel tennis professionistico nel 1991 preferiamo non parlare) aveva in bacheca 11 titoli del Grande Slam: 6 Roland Garros (1974, 1975, 1978, 1979, 1980, 1981) e 5 Wimbledon (consecutivi dal 1976 al 1980). I tennisti più giovani dovettero obbligatoriamente misurarsi con il suo mito, ma anche trarre ispirazione dal suo esempio tecnico e soprattutto caratteriale. «Borg ha fatto la carriera che ha fatto soprattutto grazie all’estrema volontà interiore di diventare il migliore», ci ha detto Ulf Roosvald, «i giocatori della generazione dopo la sua, quella di Wilander, Nystrom, Järryd, hanno beneficiato gli uni degli altri, oltre che del suo esempio. Viaggiavano sempre come una squadra e si ispiravano a vicenda».

Gli istanti decisivi della finale di Wimbledon del 1980, giocata contro McEnroe

Nei suoi primi anni da pro Mats Wilander, che del gruppo era il giocatore più rappresentativo, aveva un gioco tremendamente monotono. La finale del Roland Garros contro l’argentino Guillermo Vilas del 1982 che Wilander conquistò a soli 17 anni e 9 mesi fu talmente noiosa che nei giorni successivi qualcuno arrivò a proporre l’introduzione di «un segnale luminoso che si sarebbe acceso a intermittenza al trentesimo scambio, concedendo ai giocatori un massimo di cinque colpi per chiudere il punto». Se lo spettacolo non era il suo forte, Wilander aveva dalla sua grande tenacia e una spiccata intelligenza tattica, consapevole che, per i suoi detrattori, anche Borg giocava come un taglialegna. Col tempo allargò il suo repertorio, utilizzando sempre più spesso il rovescio in back al posto del rovescio bimane, cambiando modo di servire, migliorando il gioco di volo e, in un 1988 stellare, scalzò finalmente Ivan Lendl dal trono dell’ATP. Quell’anno Wilander si aggiudicò tutte le prove del Grande Slam, eccetto Wimbledon. Negli annali resta comunque uno storico Grande Slam svedese perché a trionfare al torneo londinese fu un connazionale di Wilander, più giovane e talentuoso, già da alcuni anni coccolato dai puristi del tennis: Stefan Edberg, finalmente un giocatore d’attacco in mezzo a tutti quegli instancabili martellatori.

Mats Wilander of Sweden the poses for a portrait at the Eiffel Tower after winning the Men's Singles Final match at the French Open Tennis Championship on 7 June 1982 at the Stade Roland Garros Stadium in Paris, France. (Photo by Steve Powell/Getty Images)
Mats Wilander sulla Tour Eiffel dopo la vittoria del Roland Garros, 1982 (Steve Powell/Getty Images)

 

Edberg era quel ragazzo che vantava (record tuttora imbattuto) la conquista del Grande Slam juniores, quel ragazzo timido, educato, silenzioso, ma anche così ostinato a trasformare ogni sua volée in un capolavoro che finì per riuscirci davvero. Proprio così, con attacchi continui e un volleare divino, Edberg contrastò i bombardieri da fondo campo della sua epoca come Ivan Lendl, Andre Agassi, Jim Courier e lo stesso Wilander (che fece prestissimo la sua conoscenza, perdendo la finale del torneo indoor di Milano del 1984, primo successo ATP di Edberg. «Contro Stefan fu un casino», ricorda Mats, «mi dava sui nervi perché ero più grande e avrei dovuto vincere, ma lui era un fuoriclasse»). Contro il suo più grande rivale, il tedesco Boris Becker, giocò tre finali consecutive a Wimbledon, vincendone due (1988 e 1990) e al Centre Court divenne l’indiscusso beniamino, oltre che per la spettacolarità del gioco, anche per il comportamento esemplare tenuto in campo. Non è un caso che l’ATP, dopo il suo ritiro, gli abbia intitolato lo Sportsmanship Award, il premio assegnato ogni anno al tennista che ha dimostrato il maggior fair play, e nemmeno che fosse amatissimo dai suoi stessi colleghi. Pete Sampras, dopo la sconfitta subita da Edberg nella finale degli US Open 1992, rivelò: «È un tale signore, che quasi facevo il tifo per lui». Arrivò al numero uno nel 1990, nel periodo di passaggio tra il dominio di Lendl e quello di Sampras fu lui il più forte al mondo.

Stefan, Mats e Björn: tre ragazzi di origini modeste, provenienti da famiglie semplici, che hanno «usufruito dei vantaggi di un tennis che da passatempo di lusso era diventato uno sport popolare». Poi qualcosa si è inceppato. Molti fattori possono essere chiamati in causa, il progressivo scemare dell’isteria collettiva legata al tennis, la mancanza di nuovi tecnici validi come i mitici Percy Rosberg e Lennart Bergelin, lo scarso interesse dei giovanissimi, la crisi globale. Oggi ci vogliono soldi per giocare. Se non sei un giocatore tra i primi centro al mondo, con il tennis rischi di rimetterci (il discorso ovviamente non vale solo per la Svezia). E così sui campi una volta gremiti crescono le erbacce, Federazione e club non hanno più soldi, mentre i privati, gli unici che possono permettersi di investire, preferiscono farlo altrove. A queste condizioni, non sorprende più di tanto che il Paese che a lungo è stato considerato una fabbrica di campioni non abbia nemmeno un giocatore tra i primi cento. «Oggi purtroppo in ogni area residenziale puoi vedere campi deteriorati”, sostiene sconsolato Ulf Roosvlad. “Negli anni Settanta e Ottanta ognuno di quei campi era tenuto perfettamente e costantemente utilizzato. Adesso le reti sono consumate o assenti, e i rettangoli da gioco sono pieni di erbacce. Dal punto di vista del risparmio e della salute pubblica, un consiglio comunale probabilmente reputa meglio spesi i soldi per costruire un campo da calcetto, dove dieci-quindici bambini possono giocare contemporaneamente, che non un campo da tennis, dove al massimo possono giocare in quattro».

12 MARCH 1994: SWEDENS STEFAN EDBERG IN ACTION DURING HIS SECOND ROUND MATCH AGAINST US ROBBIE WEISS IN THE LIPTON TENNIS CHAMPIONSHIPS AT KEY BISCAYNE IN FLORIDA. Mandatory Credit: Simon Bruty/ALLSPORT
1994: Stefan Edberg gioca sul cemento americano, a Key Biscayne (Simon Bruty/Allsport)

 

Dopo i tre numeri uno, il nulla non è arrivato all’improvviso. Thomas Enqvist, Magnus Norman, Thomas Johansson, Robin Söderling sono stati buoni giocatori e hanno caratterizzato con alcuni risultati di prestigio (la vittoria di Johansson agli Australian Open 2002, le due finali consecutive a Parigi di Söderling nel 2009 e 2010) il passaggio «tra passato e presente, tra l’alone dorato e la luce impietosa». Attualmente la squadra di Coppa Davis non fa parte del Gruppo Mondiale e l’unico giocatore di qualità, Elias Ymer, nonostante i lenti progressi, non ha ancora lasciato traccia di sé in un torneo importante.

Insieme all’amarezza, restano però tre decenni sul tetto del mondo, coronati, oltre che dai 25 sigilli Slam in singolare, anche da 7 trionfi in Coppa Davis (1975, 1984, 1985, 1987, 1994, 1997, 1998). Ma siccome siamo convinti che, pure in un tale almanacco di vittorie indimenticabili, alcune siano più indimenticabili di altre, abbiamo chiesto a Mats Holm e Ulf Roosvald di scegliere le loro preferite. Mats Holm ce ne ha indicate tre:

1) Il quinto titolo a Wimbledon di Borg nel 1980, «è stato il più bello, un autentico classico».

2) Il titolo di Mats Wilander a Parigi nel 1982, «la vittoria forse più importante perché ha ispirato tutta la nuova generazione di tennisti svedesi».

3) Il titolo di Stefan Edberg agli US Open del 1991, «la migliore vittoria, se pensiamo alla più alta qualità di tennis espresso».

Edberg trionfa agli Us Open in finale contro Courier, nel 1991

Roosvald, invece, ha scelto la finale di Coppa Davis contro gli Usa del 1984. «McEnroe e Connors erano numero 1 e numero 2 del mondo, mentre McEnroe e Fleming non avevano mai perso un match di doppio in Coppa Davis. Accadde però che sulla lenta terra indoor di Göteborg Wilander batté Connors in tre set, e Henrik Sundtsröm ebbe la meglio su McEnroe. Il giorno successivo, poi, Järryd e un diciottenne Edberg imposero alla coppia McEnroe-Fleming la prima sconfitta in Coppa Davis e l’insalatiera tornò in Svezia dopo nove anni».