La lunga rivoluzione di Wenger

Vent'anni dalla prima volta di Arsène Wenger sulla panchina dell'Arsenal, due decenni in cui ha cambiato il calcio inglese, senza cambiare mai.

Mio nonno non ha mai avuto una grande passione per il calcio. La mia famiglia aveva un abbonamento a Elland Road, alla fine degli anni Novanta, ed era sempre difficile convincerlo a venire con noi a vedere il Leeds. A meno che, naturalmente, non giocasse anche l’Arsenal. Quelle occasioni erano molto più di una partita di calcio. Erano arte.

Il ricordo di quando gli Invincibili vennero a Leeds, nel 2003/04, e infiammarono Elland Road vincendo 4 a 1 sia in Premier League, sia in Fa Cup, non si sono sbaditi. Il nonno non capiva perché nessun altro, oltre a lui, si alzasse in piedi nella John Charles stand ad applaudire. Dovetti dirgli di mettersi a sedere. Eppure guardare l’Arsenal non era sempre stato così divertente. C’è stato un tempo in cui l’immediata reazione, a una partita dei Gunners, era di cadere addormentati.

Ad esempio, se avessi detto nel 1994 a mio nonno che l’Arsenal avrebbe dovuto giocare contro il Leeds in città, avrebbe trovato una scusa per stare in casa. Erano gli anni della “boring, boring Arsenal”, del coro “one-nil to the Arsenal”, come avrebbe scoperto il Parma nella finale di Coppa delle Coppe quello stesso anno. Era una squadra famosa per la sua trappola del fuorigioco, puntuale come l’orologio di Highbury, non per il suo stile di giocare la palla. L’Arsenal di oggi indossa quegli stessi colori, ma in confronto è completamente irriconoscibile. Oggi è l’Arsènal, un club che non si può scindere da Arsène Wenger.

Il 12 ottobre 1996 Wenger, ingaggiato il primo ottobre, esordisce sulla panchina dell’Arsenal, vincendo 2-0 contro il Blackburn. Se fosse stato per David Dein, il vicepresidente all’epoca, Wenger sarebbe arrivato già nel febbraio del 1995, dopo il licenziamento di George Graham in seguito a un’inchiesta che rivelò che aveva intascato più di 425-000 sterline per i trasferimenti di John Jensen e Pål Lydersen.

Il resto del board era d’accordo con Dein nell’ammirare Wenger, ma quando l’idea di sostituire Graham con lui fu messa ai voti, il risultato fu un 7-1 contro. Era vista come una scelta troppo rischiosa. Nessun altro club della Premier League, allora, aveva un manager non britannico, e Peter Hill-Wood, l’allora proprietario, era preoccupato anche da come uno straniero avrebbe gestito il turbolento spogliatoio della squadra. «Onestamente, avevamo una squadra difficile», ha ammesso. «C’erano comportamenti non propriamente buoni. Problemi con Tony Adams, Paul Merson e uno o due altri giocatori».

Arsenal Training Session

Adams, il capitano, aveva passato due notti in prigione nel 1991, dopo aver distrutto la sua Ford Sierra contro un muretto a Rayleigh, nell’Essex, ed era risultato positivo – con un tasso di quattro volte superiore al massimo consentito – all’alcol test. Merson, nel frattempo, era dipendente da alcol, cocaina e gioco d’azzardo. Stewart Houston fu scelto come traghettatore fino al termine della stagione, e infine il board optò per Bruce Rioch, manager del Bolton, come successore di Graham. Durò un solo anno. Se vincere 1 a 0 era il marchio di fabbrica dell’Arsenal, litigare con Ian Wright, l’unico centravanti in grado di segnare, non fu una scelta particolarmente felice per Rioch. L’unica cosa per cui viene ancora oggi ringraziato dai tifosi dell’Arsenal fu l’acquisto di Dennis Bergkamp, per nulla eccezionale all’Inter, a un costo record per l’epoca.

Terry Venables (un ex Tottenham) e Johann Cruyff erano i favoriti per prendere il posto di Rioch nella trincea di Highbury. Cruyff, in particolare, scaldava l’immaginazione dei tifosi. Anche una certa parte di fan tuttora fedeli a Wenger non possono fare a meno di chiedersi: cosa sarebbe successo? Nessuno, eccetto Dein, aveva mai sentito il nome di Wenger all’epoca.

GBR: Barnet v Arsenal

Dean ci si imbatté per la prima volta nel 1989. Sua moglie Barbara aveva parlato con un uomo molto interessante alla vecchia cocktail lounge di Highbury prima di una partita. Dopo il fischio d’inizio, andò a cercare Dein e gli disse di incontrarlo all’intervallo. L’uomo era Arsène Wenger. La Ligue 1 era ferma per la pausa invernale, e Wenger aveva pensato di fare un salto a una partita dell’Arsenal nel tempo libero. Dein si presentò e gli chiese se volesse unirsi a lui e Barbara a cena da un amico, quella stessa sera. Wenger accettò.

«Essendo di Strasburgo», Dean ricorda, «parlava bene soltanto due lingue: francese e tedesco. Parlava poco inglese, ma sembrava a suo agio. Il mio amico lavorava nello show business, e decidemmo di giocare a fare gli attori a fine cena. Dissi ad Arsène: “Vuoi giocare?”. Lui: “Ok”, e due minuti dopo stava recitando davanti a tutti Sogno di una Notte di Mezza Estate. Da quel momento, Dein si prefissò di far sì che il nome di Wenger fosse sempre in gioco per la panchina di Highbury, e non uscisse mai dai pensieri del board. In vacanza, ad Antibes, Dein andava a vedere le partite del Monaco, e quando Wenger se ne andò in Giappone ad allenare il Nagoya Grampus gli spediva via posta videocassette delle partite dell’Arsenal.

Il 1 ottobre 1996 segnò la fine di sette anni di tentativi da parte di Dein. Lui era soddisfatto, ma la stampa scettica. L’Evening Standard titolò: «Arsène who?». Era una reazione simile a quella di quando il Milan scelse Arrigo Sacchi. Un allenatore strano, esotico, visto con sospetto. Non potevano sapere che avrebbe cambiato l’Arsenal, e l’intero calcio inglese, per sempre.

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La rivoluzione francese era già iniziata prima dell’arrivo di Wenger. Arrivò dopo otto partite dall’inizio della Premier, per onorare il suo contratto con il Grampus, ma Rémi Garde e Patrick Vieira erano già stati comprati, sempre su sua richiesta. Garde era gli occhi e le orecchie di Wenger nello spogliatoio. Quando Wenger iniziò il suo lavoro, ai giocatori sembrò di essere tornati a scuola: Adams pensava che l’Arsenal avesse assunto un «professore di geografia», non un manager di calcio. Più tardi, tutti furono d’accordo nel considerare Wenger un visionario.

Se chiedete ai giocatori quale sia stato il segreto dietro al double dell’Arsenal del 1998, molti risponderanno: broccoli. I broccoli avevano completamente sostituito le barrette di Mars nel centro di allenamento dei Gunners. Era sparita ogni traccia di junk food. All’improvviso, i giocatori si nutrivano soltanto di riso bianco e pesce bollito. Il bar nella players’ lunge fu chiuso.

Le innovazioni di Wenger non si fermarono al cibo. Spostò il centro di allenamento lontano dai campi che l’Arsenal divideva con gli studenti dello University College London, a Sopwell House, una country house a quattro stelle. Ma quello che lo distingueva più dagli altri manager, e in cui spiccava, era lo scouting. In un’epoca in cui la maggior parte dei club inglesi compravano giocatori internamente, Wenger sapeva conosceva il mercato inglese proprio negli anni in cui stava producendo un’intera generazione di futuri campioni del mondo e d’Europa: Vieira, Emanuel Petit, Nicolas Anelka. L’acquisto di Marc Overmars dall’Ajax. Gary Neville qualche anno più tardi avrebbe detto che quell’Arsenal era la squadra più forte che avesse mai incontrato in Inghilterra. «I migliori di tutti, meglio del Chelsea di Mourinho, anche meglio degli Invincibili. Dal portiere alla punta è difficile trovare una sola debolezza. Non credo di aver mai incontrato una squadra così forte fisicamente – soltanto la Juventus, forse».

(FILES) Arsenal's French forward and tea

La cosa migliore che fece Wenger a quella squadra fu non cambiare niente in difesa. Non aveva bisogno di alcun aggiustamento. Vieira e Petit erano mostruosi su a centrocampo. Ray Parlour, il Pelé di Romford, teneva la squadra bilanciata sul lato destro, mentre la velocità di Overmars e Anelka annientava i difensori. Bergkamp era genio allo stato puro. Anno dopo anno, l’Arsenal continuava a migliorarsi. Wenger riusciva a trovare giocatori come Freddie Ljungberg a costi irrisori. Fece crescere talenti come Ashley Cole. Era il re della plusvalenza: Anelka fu acquistato per 760.000 euro e rivenduto a 35 milioni, parte dei quali destinati alla costruzione del centro di allenamento super avenzato di London Colney. Con i soldi incassati dalle cessioni di Petit e Overmars al Barcellona, 43 milioni di euro, portò a Londra Robert Pirés, Lauren e Sylvain Wiltord. Poi, naturalmente, comprò Thierry Henry, il più grande giocatore della storia della Premier League.

In molti tendono a dimenticare che la coppia difensiva degli Invincibili fu assemblata con soli 185.000 euro. Sol Campbell fu convinto a lasciare il Tottenham e varcare il confine della rivalità senza pagare una sterlina. Kolo Touré verrà ricordato come uno dei migliori affari di sempre di Wenger. Si sarebbero meritati, quell’anno, di vincere la Champions League. Sarebbe sufficiente ricordare la vittoria per 5-1 contro l’Inter, a San Siro. Con la mente sempre rivolta al futuro, l’anno in cui l’Arsenal vinse la Premier League senza subire una sola sconfitta fu lo stesso in cui Wenger acquistò un sedicenne Cesc Fábregas dal Barcellona. La sua capacità di pianificare e costruire squadre era fenomenale. Wenger guardava costantemente avanti, e infine vide l’Arsenal in un nuovo stadio.

Arsenal Training Session

L’idea di costruire l’Emirates e la sua effettiva costruzione sono momenti spartiacque nella storia del club. C’è il primo decennio di Arsène Wenger, in cui l’Arsenal vinse 11 trofei e raggiunse una finale di Champions League, e il secondo – gli anni dell’Emirates – in cui due Fa Cup costituiscono le uniche vittorie. Il paradigma della Premier League cambiò esattamente mentre l’Emirates prendeva forma. Oligarchi e sceicchi arrivarono, spendendo a livelli che non si erano mai visti prima. L’Arsenal, invece, risparmiava. Il panorama calcistico, in Inghilterra, era stravolto. Cosa importava se il tuo stadio non era grande come Old Trafford, e i tuoi conti non erano in attivo, se avevi un proprietario come Roman Abramovic o, più tardi, Mansour?

Wenger l’ha chiamato «doping finanziario». «È come avere pietre contro le mitragliatrici», ha detto. Si rifiutò di combattere la guerra delle offerte, né quando si trattava di comprare, né quando si trattava di trattenere un giocatore. Cole, attirato dai soldi, se ne andò al Chelsea. Gael Clichy, Bacary Sagna, Emanuel Adebayor e Samir Nasri seguirono i soldi, al Manchester City. Fabregas, il capitano, voleva tornare a Barcellona per lavorare sotto Guardiola. Ogni partenza rafforzava l’idea che i migliori giocatori dell’Arsenal non credevano più di poter vincere all’Emirates. In questo contesto, e in particolare dopo aver perso la finale di League Cup contro il Birmingham, e dopo l’8 a 2 subito all’Old Trafford, non fu una sorpresa che Robin Van Persie non ci pensò due volte prima di trasferirsi al Manchester United. I tifosi erano infuriati. Con Wenger, per averlo venduto allo United (perché non l’aveva convinto ad andare alla Juventus?), e con le innumerevoli volte che i contratti dei loro migliori giocatori erano stati trascurati.

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Era deprimente. Ferguson lamentò la morte di una rivalità storica. Gli mancavano le risse tra Vieira e Roy Keane nel tunnel. Il “pizza gate”. La strategia sviluppata dallo United con cui sconfisse l’Arsenal nella semifinale di Champions del 2009 continuava a funzionare bene. Wenger, con sorpresa di Ferguson, non ci si adattò mai, e il Manchester vinse nove delle ultime dodici gare tra le due, prima del ritiro di Sir Alex. L’ostinazione, specialmente nel non cambiare mai stile di gioco nelle partite in trasferta e contro diretti contendenti al titolo, ha lasciato Wenger esposto alle accuse: era arrogante oppure naïve, così come la convinzione di poter vincere la Premier League senza nessuno a centrocampo capace di sostituire il lavoro che facevano Vieira o Gilberto Silva.

Per troppo tempo si è evitato di intervenire su ruoli della squadra dove ce n’era più bisogno. Per anni lo è stato il portiere. Poi un difensore di contenimento. Richieste per un attaccante di prima fascia continuavano a cadere nel vuoto, e questo ha aumentato l’impazienza di molti nei confronti di Wenger la scorsa stagione, in un’estate in cui l’Arsenal non ha comprato nessun giocatore di movimento (anche se Petr Cech è stato accolto a braccia aperte). Wenger non spende nulla se non è pienamente convinto della cifra spesa, cosa che al giorno d’oggi è sempre più difficile. Non paga niente più del dovuto. Per questo, viene spesso criticato quando, in realtà, la sua è una qualità ammirevole. Wenger sborsa i soldi dell’Arsenal come se fossero suoi. È attento nel farlo. Non è quello che vorremmo tutti da un proprietario o da un manager? Dovrebbe essere così. Ma non lo è. I tifosi dell’Arsenal non si preoccupano se la cifra richiesta dal Lione per Alexander Lacazette è congrua oppure no. Non gli interessa se servono 10 milioni di sterline, 15 o 20 per chiudere l’affare. Compratelo e basta!

Ad ogni modo, l’Arsenal può permettersi eccome certe spese. L’Emirates frutta da solo 101,84 milioni di sterline ogni anno, una cifra che nessuno stadio al mondo è capace di raggiungere, e la società ha un utile netto (226,5 milioni di sterline) maggiore di Barcellona, Real Madrid e Bayern Monaco messi insieme. Una situazione che indispettisce molto i tifosi dell’Arsenal. Dopo averli portati in alto, circola la sensazione che con Wenger si stiano facendo dei passi indietro, e questo li fa sentire danneggiati. L’Arsenal si è qualificato in Champions League per 19 stagioni consecutive: immaginate quanti introiti Wenger ha portato alla società. Squadre come Manchester United, Chelsea e Liverpool, in tutto questo tempo, sono state spesso fuori dalla Champions. Anche la scorsa stagione, i Gunners hanno celebrato il St. Totteringham’s Day per il ventunesimo anno di fila. Ma non è abbastanza per i tifosi. «Lo definirei “un livello di alta mediocrità”», dice Nigel Phillips, un membro del board dell’Arsenal Supporters’ Trust.

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Dodici anni senza un campionato vinto è un periodo troppo lungo. La scorsa stagione sarebbe dovuta essere l’anno dell’Arsenal, complici le crisi di City, United e Chelsea. La vittoria del Leicester è stata imbarazzante. E, in modo preoccupante, ha rivendicato il pensiero di Wenger secondo cui si può avere successo anche senza spendere una fortuna. Oggi, con il contratto in scadenza a fine anno, un buon numero di tifosi dell’Arsenal crede che lo scenario da sogno per Wenger sia interrompere il digiuno in Premier League e salutare in maniera trionfale. La verità è che sarà Wenger, e solo Wenger, a decidere se è arrivato il momento di andar via. E, sia se resti oppure no, i tifosi dovrebbero essere grati nei suoi confronti. Fuori dall’Emirates ci sono statue di Herbert Chapman, Henry e Adams. Un giorno, non troppo lontano, ce ne sarà anche una di Wenger.

 

Nell’immagine in evidenza, Arsène Wenger nel 2000 prima di una partita di Champions League (Ben Radford /Allsport)