La metamorfosi di Insigne

Non è stato un percorso facile, ma Lorenzo Insigne, da incompiuto, è diventato forse il miglior calciatore italiano.

È il minuto 50 di Napoli-Besiktas, gara della terza giornata dei gironi della Champions League 2016/17. Con i turchi in vantaggio 2-1 al San Paolo e con la qualificazione degli azzurri in discussione Lorenzo Insigne si presenta sul dischetto del rigore per riportare il risultato in parità: la sua conclusione lenta e prevedibile, viene intercettata senza problemi da Fabri, estremo difensore dei bianconeri di Turchia. Quindici minuti dopo, Insigne viene sostituito da Gabbiadini e piange mentre tutto il San Paolo fischia: quella che si materializza sembra la scena madre – dopo la maglia scagliata a terra in occasione del preliminare di Champions di due stagioni prima con l’Athletic Bilbao e l’invito, provocatorio, ad aumentare i decibel della contestazione nei suoi confronti, dopo un’altra sostituzione nella stagione precedente nella partita contro la Lazio – di uno psicodramma intimo e collettivo che vede un napoletano respinto dal suo popolo. L’episodio sembra essere la firma in calce all’ennesimo nemo propheta in patria consumatosi all’ombra del Vesuvio, tanto più perché contestuale all’eccellente stato di forma di Milik e Mertens e a un rinnovo di contratto che tarda ad arrivare.

L’errore dal dischetto contro il Besiktas

A dodici mesi di distanza le prospettive si sono totalmente ribaltate: a 26 anni appena compiuti e all’apice della sua maturità calcistica, Lorenzo Insigne è un legittimo candidato al ruolo, pur volubile, di miglior giocatore italiano in attività. È la pietra angolare del sistema offensivo del Napoli di Sarri, si è visto riconosciuto uno status da top player con un ricco rinnovo contrattuale fino al 2022 e in Nazionale ha ereditato il numero 10 che fu di Baggio, Del Piero e Totti. Niente di tutto questo era scontato: Insigne ha dovuto “riciclarsi”, riscoprirsi fondamentale in un modo diverso da quello che ci si aspettava, risolvendo l’equivoco sul suo modo di essere campione che aveva condizionato la prima fase della sua carriera: perché dalle aspettative di fuoriclasse tout court che risolvesse le partite da solo a  fantasista fortemente associativo in grado di dare concretezza alla bellezza del collettivo sarriano, il passaggio è stato lungo e, a tratti, doloroso.

Quello che arriva a Napoli, nell’estate del 2012, è un giocatore con le stimmate da next big thing del calcio italiano. Molto più di Marco Verratti, suo compagno nell’irripetibile Pescara di Zeman (che aveva già allenato Insigne nella sua seconda parentesi a Foggia). Del resto, non poteva essere altrimenti: del tridente completato da Immobile e Sansovini, Insigne è l’elemento che descrive al meglio l’imbarazzante superiorità con cui gli abruzzesi dominano in cadetteria (90 reti segnate, 18 – con 14 assist – del folletto di Frattamaggiore). Indifendibile in transizione in campo aperto, costantemente in grado di creare la superiorità numerica, abilissimo nel leggere la situazioni a difesa schierata per trovare lo spazio per l’ultimo passaggio, addirittura diabolico nel riuscire a individuare ogni volta la soluzione giusta per andare a rete, privilegiando quella conclusione d’interno destro a giro sul secondo palo che ne fa l’erede naturale di quell’Alessandro Del Piero suo idolo d’infanzia: un uomo tra i bambini, un giocatore semplicemente fuori categoria.

SSC Napoli v FC Torino - Serie A

L’attesa generata in quei mesi è pari solo alla difficoltà dell’impatto con il calcio “dei grandi”: imbrigliato nel rigido schematismo del 3-5-2 di Walter Mazzarri, Insigne si trova a fare i conti con quello che in America chiamano rookie wall, il muro tattico, tecnico e psicologico che ogni giovane, per quanto promettente, deve imparare a superare se vuole costruirsi una carriera di alto livello. Di colpo, un giocatore dagli enormi margini di crescita, dimostra tutti i suoi limiti, tanto più in un contesto in cui la dimensione fisica assume un’importanza preminente rispetto a quella tecnica e l’esplosività e il vantaggio accumulato nello stretto grazie al suo fisico minuto non sono più così superiori alla media. Ancora incapace di ritagliarsi il proprio spazio in un collettivo con posizioni fisse e movimenti codificati in cui, tra l’altro, è chiamato ad agire da seconda punta classica, il “Magnifico” fatica anche a fare valere le capacità individuali che lo avevano portato ad esordire con la Nazionale maggiore già nel settembre 2012, con pochissimi minuti di Serie A alle spalle. Il suo dribbling, una volta ridotto lo spazio attaccabile alle spalle del difensore, chiudendo il lato interno e forzando l’attacco di quello esterno, si dimostra molto meno efficace rispetto al passato (non a caso, fino all’arrivo di Sarri, la percentuale di uno contro uno vinti sarà costantemente sotto il 50%) e anche il movimento a rientrare in preparazione della conclusione o dell’assist risulta ben presto di facile lettura per il marcatore diretto.

Il risultato è una stagione da cinque gol (di cui uno nel finale di partita contro il Cagliari, fondamentale per la rincorsa al secondo posto e l’accesso diretto alla fase a gironi di Champions), sette assist e un dualismo perenne con Pandev che ne accentua la difficoltà nella gestione di pressioni e aspettative, soprattutto nelle gare interne. E con Benítez non va certo meglio: il tecnico spagnolo, pur essendo il primo a intuire le potenzialità di Insigne come esterno offensivo moderno, lo sacrifica tantissimo in fase di non possesso a tutta fascia (fondamentale che, comunque, gli tornerà utile in futuro) e lo allontana  sempre più dall’ultimo terzo di campo, demineralizzandone il contributo offensivo (11 reti e 16 assist in due stagioni) e aumentando gli equivoci sulle future prospettive. Da progetto di campione a uno come tanti, con l’ulteriore tegola della rottura del legamento crociato del ginocchio destro che lo taglia fuori proprio quando stava iniziando a prendere confidenza con il nuovo ruolo.

Il Milan umiliato a San Siro, la prima doppietta in Serie A di Insigne, il 4 ottobre 2015

L’Insigne che Maurizio Sarri trova al momento del suo insediamento sulla panchina azzurra è, perciò, un giocatore umorale, incompleto, indefinito e indefinibile: da reimpostare del tutto, proprio come il resto della squadra. Il tecnico toscano lo prova prima alle spalle delle punte, poi, dopo aver trovato la quadra collettiva con il 4-3-3 di cui Higuaín è il centro di gravità permanente, lo riporta sull’amato centro-sinistra, aprendogli nuove prospettive nello sfruttamento dello spazio a disposizione: agendo da trequartista atipico piuttosto che da ala pura, Insigne impara a ricollocarsi in un contesto di squadra finalmente rispondente alle sue caratteristiche, scoprendosi determinante in una maniera diversa da quella che ci si potesse aspettare ad inizio carriera. Non è più necessario forzare l’uno contro uno ad ogni costo per creare la superiorità numerica: basta saper occupare gli spazi che si vengono a creare grazie al movimento continuo di una catena di sinistra livello cinque stelle extralusso completata da Hamsik e Ghoulam.

Insigne riesce a leggere e interpretare al meglio i flussi di gioco, trasformandosi nel vero regista avanzato della squadra e “brevettando” due movimenti che ancora oggi costituiscono l’ago della bilancia delle fortune offensive dei partenopei: il primo trademark è costituito dalla scalata a mezzala in fase di possesso per favorire gli inserimenti  senza palla del capitano Hamsik, poi servito sulla corsa in verticale per facilitare la battuta a rete; il secondo, invece, è costituito dalla perfetta intesa con Callejon servito sempre con i tempi giusti nel suo classico taglio alle spalle dell’ultimo difensore dopo aver sovraccaricato il lato forte, in una riedizione pallonara dello “Stockton to Malone” che fu. Non è un caso, quindi, che dal 2015/16 Insigne sia il giocatore del Napoli ad aver creato il maggior numero di occasioni da gol (22 assist e 125 passaggi chiave in Serie A, rispettivamente quattro e 11 soltanto in quest’inizio di stagione) oltre che uno cui Sarri difficilmente rinuncia (97 presenze tra campionato e coppe dall’agosto 2015, 49 su 50 gare disputate dagli azzurri nel 2016/17).

Dopo meno di 10 minuti, al Bernabeu, 15 febbraio 2017

Anche dal punto di vista realizzativo la crescita è stata tanto evidente quanto esponenziale: se, con Higuaín, Insigne aveva imparato fin da subito a sfruttare alla perfezione gli spazi aperti dai movimenti senza palla del Pipita, nel Napoli del Mertens falso nove e del possesso palla prolungato e consolidato, si rende necessario un fisiologico periodo di adattamento ai movimenti del belga, in base ai quali calcolare il timing di interscambio della posizione e di effettuazione/ricezione del filtrante in profondità dopo lo scambio stretto per eludere la pressione della linea difensiva avversaria. Sbloccatosi a metà novembre con la doppietta all’Udinese alla tredicesima giornata, Insigne segna 16 gol nelle successive 25 partite, fissando a quota 18 (20 considerando le altre competizioni) il suo nuovo record di realizzazioni, trovando una varietà e una qualità di soluzioni che mandano definitivamente in archivio l’immagine caricaturale del ragazzino di talento che cerca unicamente il tiro a giro sul palo lungo, in un perenne e forzato tentativo d’emulazione di Del Piero.

Le critiche ricevute in occasione delle ultime uscite con la Nazionale hanno rafforzato l’impressione di un giocatore cui manchi l’ultimo passo per la definitiva consacrazione. L’Insigne di oggi si è dimostrato un elemento fondamentale e decisivo in un sistema di gioco ben rodato, ma che non riesce ancora a incidere compiutamente quando deve agire al di fuori di uno spartito tecnico e tattico predefinito. Qualora si riuscisse a bilanciare la nuova dimensione associativa del suo calcio con una più immediata, istintiva ed estemporanea, saremmo al cospetto non solo del miglior giocatore italiano del momento, ma anche dell’ultimo depositario della tradizione dei grandi fantasisti che furono.

 

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