Abbiamo dimenticato troppo presto Angelo Ogbonna?

Il difensore del West Ham milita da otto anni nel campionato più ricco e glamour del mondo, eppure è costantemente ignorato dalla Nazionale e dai media italiani.

C’è una foto particolarmente suggestiva di Angelo Ogbonna, che lo ritrae circondato da una leggera nebbia sopra a una delle enormi spiagge del Fife scozzese, davanti alle onde e al vento del Mare del Nord. Sta correndo sulla sabbia pressata dall’umidità e con lui ha i suoi compagni del West Ham. Ogni anno, ai primi di luglio, il manager David Moyes li porta lì, a St Andrews, per iniziare la preparazione. Nella foto stanno correndo fianco a fianco quasi a voler reinterpretare il frame di Momenti di Gloria che da bambino vedevo sulla copertina della colonna sonora che mio padre teneva sulla sua Saab. Un’immagine che sa di epica abbinata a professionalità. L’emozione che incontra la tecnica è la collisione che sprigiona il fascino di quello scatto. Ma c’è dell’altro. C’è qualcosa che rende quel momento personale di Ogbonna, se non addirittura paradossale, quantomeno curioso. Ed è la data: il 6 luglio del 2021, negli stessi istanti in cui lui correva dentro a quella cornice di elegante classicità britannica indossando la felpa del West Ham, claret con piccoli dettagli blue, la Nazionale italiana guidata da Roberto Mancini era nel pieno della riunione tattica prima della semifinale degli Europei che avrebbe giocato la sera stessa contro la Spagna, a Wembley. Wembley che vuol dire Londra, Londra che vuol dire la città in cui Ogbonna si è prima affermato e poi confermato, anno dopo anno, come un giocatore di Premier League. La città in cui cresce suo figlio e in cui da poco aveva sfiorato una storica qualificazione ai gironi di Champions League con i suoi Hammers.

«Sono molto stupito e anche amareggiato», aveva detto Ogbonna al Corriere della Sera alla fine di maggio in un’intervista in cui gli chiedevano come avesse preso la sua esclusione dalle convocazioni per far parte degli Azzurri che avrebbero affrontato l’Europeo. Aveva offerto parole sincere che non mascheravano la delusione provata per non essere stato scelto dopo una sua stagione molto positiva giocata da titolare della squadra che forse più di tutte aveva sorpreso quell’anno in Inghilterra. Proseguendo aveva anche parlato direttamente del ct e dell’errore che a suo parere aveva commesso: «Forse non ha tenuto in considerazione il campionato del West Ham, eppure abbiamo lottato fino all’ultimo per la qualificazione in Champions con il Chelsea di Jorginho e Palmieri. Nello sport la meritocrazia deve prevalere, in base al campionato in cui uno gioca, alle statistiche, al valore del giocatore. E stavolta secondo me non ha prevalso».

Da almeno un decennio, o forse anche di più, addetti ai lavori e appassionati non fanno che utilizzare i vari refrain per cui la Premier è la NBA del calcio, è il campionato più competitivo, i migliori sono lì, per cui le squadre inglesi hanno un’intensità e una velocità irraggiungibile da quelle italiane, per cui il calcio in Inghilterra è puro spettacolo: poca tattica, l’azione di continuo rovesciata in transizione. Ecco, se continuiamo a ripeterci che i migliori sono lì, come mai non ci ricordiamo abbastanza di un difensore italiano che sta costruendo la gran parte della sua carriera proprio nella NBA del calcio? Con le sue 174 gare giocate in campionato con la maglia del West Ham, Ogbonna è a sole quattro presenze da Benito Carbone e a diciotto da Paolo Di Canio nella classifica degli italiani con più partite giocate oltremanica. Il primatista Gianfranco Zola – 229 partite di campionato giocate con il Chelsea – è un po’ più staccato ma non irraggiungibile. Senza nulla togliere ai primi tre sul podio, è oggettivo che Carbone, Di Canio e Zola abbiano vissuto una Premier League inferiore a quella che ha vissuto e sta ancora vivendo Ogbonna. Il livello medio non era così alto, i migliori al mondo spesso preferivano ancora l’Italia o la Spagna, i club inglesi non godevano ancora dei milioni di diritti tv di cui godono oggi e che gli garantiscono un potere d’acquisto sul mercato in grado di soffocare ogni concorrenza nello scegliere chi – e a quali condizioni – vendere e acquisire chi vogliono in giro per l’Europa e per il mondo. Dati di fatto che rendevano il restare lì e il confermarsi ogni anno come titolari delle proprie squadre appena un po’ meno complicato di quanto non lo sia oggi.

Ogbonna sembra sentirsi perfettamente a suo agio a Londra e chissà se non sia questa sua immersione perfettamente armonica con il contesto che lo circonda a renderlo più invisibile agli occhi di chi guarda verso l’estero dalla prospettiva italiana. Accadeva per esempio con Amedeo Carboni. Sentiva a tal punto la sua appartenenza al Valencia e il popolo valenciano lo riconosceva talmente come una propria icona che a vederlo da qua sembrava essere quasi più spagnolo che italiano. Facendo così un po’ meno notizia, diventando inconsciamente meno facile da immaginare in maglia azzurra. Carboni era diventato un ambasciatore del club, un senatore, qualcosa di non così distante da come Ogbonna ha accolto Gianluca Scamacca pochi giorni fa al suo arrivo a Rush Green, il centro sportivo del West Ham. Nei video che si sono visti sui social fa gli onori di casa, accoglie il giovane attaccante appena sbarcato dall’Italia e lo presenta al manager Moyes, mostra tutti i suoi denti mentre fa scoppiare una sonora risata utile a rompere il ghiaccio del primo incontro tra il ragazzo che ancora non conosce lingua, posto, abitudini e il suo nuovo capo.

Ogbonna sente la maglia del West Ham addosso e i tifosi lo riconoscono come un veterano. Non perde occasione per condire ogni suo post Instagram con l’hashtag #COYI, come on you irons, uno dei cori più sentiti dai tifosi, intonato per decenni sulle tribune del vecchio Upton Park e ora dell’Olympic Stadium. Lo scorso autunno ha anche aggiunto uno status superiore nella memoria di chi ama quei due colori grazie all’iconicità che solo le immagini che tutti leghiamo a dolore e sofferenza esprimono: quando in uno scontro di gioco con Diogo Jota del Liverpool, gli si è aperto un profondo taglio al sopracciglio destro, rigandogli zigomo e guancia di un paio di sottili strisce di sangue che hanno finito per sporcare anche la sua maglia numero 21.

Con la Nazionale, Angelo Ogbonna ha accumulato 13 presenze complessive in gare ufficiali, amichevoli comprese (Claudio Villa/Getty Images)

Prima che in Italia ci dimenticassimo di lui, la prima parte della carriera di Ogbonna aveva espresso caratteri non così scontati. Dopo Balotelli, è stato il nazionale italiano nero fino ad ora più importante, e per esserlo ha rifiutato una convocazione delle Federazione Nigeriana per la nazionale maggiore quando aveva solo vent’anni. Italiano di seconda generazione, nato a Cassino da genitori nigeriani e cresciuto nel quartiere San Bartolomeo, ha sempre minimizzato la questione del colore della sua pelle senza però ignorare mai la questione razzismo, come quando a Repubblica ha spiegato «Di razzismo parliamone pure, ma vi dico che io mai sono stato vittima di un episodio razzista. Se notate una diversità in me è un problema vostro, non mio».

Era entrato nella giovanili del Torino esordendo in prima squadra per volere di Alberto Zaccheroni a inizio 2007, a diciotto anni. Era stato mandato in prestito al Crotone, in C1, con cui aveva sfiorato la promozione, prima di tornare in granata un anno, prologo a una cocente retrocessione. Nei tre anni successivi in Serie B era diventato uno dei centrali titolari e il vice capitano, indossando la fascia in alcune occasioni. Dopo la sua prima stagione torinista in Serie A era stato acquistato dalla Juventus, creando una piccola ferita nei cuori dei tifosi granata. Era il momento di massima considerazione per Ogbonna: era un giocatore costantemente convocato in Nazionale, era stato ospite di Fabio Fazio a Sanremo, pareva lo volessero anche Milan e Napoli. Aveva 25 anni e i crismi del difensore forte e attento sull’uomo tanto quanto elegante con la palla tra i piedi, che amava impostare bene quanto marcare in maniera molto fisica. Purtroppo alla Juve era andata in maniera meno brillante del previsto e i 15 milioni pagati per acquistarlo dal Torino s’erano abbassati agli 11 con cui era stato ceduto al West Ham due stagioni dopo. Il cannibalismo bianconero di quegli anni può aver contribuito a far evaporare la sua immagine nel sentire comune, una sorta di certificazione di non essere all’altezza dopo aver fallito tra i migliori. Una valutazione affrettata, se non provinciale. Come se davvero fossimo ancora il riferimento del calcio mondiale. Come se essere per otto anni consecutivi un titolare nella Premier League degli anni Dieci e Venti non valesse molto di più di quanto ci appare visto da qui.