L’esultanza di Ciro Ferrara dopo il calcio di rigore di Jugovic è tra le immagini più belle della finale di Champions League del 1996. Juventus e Ajax hanno pareggiato per 1-1, e il calciatore serbo è lì, a 11 metri dalla gloria personale e di squadra. Ferrara è avvinghiato a Gianluca Vialli, e capire chi regge chi è un’astrazione priva di significato. «Non ricordo nemmeno se quello girato dall’altra parte rispetto alla porta ero io o lui. Non ci dicemmo nulla. Bastò lo sguardo», ricorda Ferrara. Quando il pallone scivola in rete, si stacca da Vialli cadendo all’indietro, braccia larghe e pugni serrati, muscoli facciali tirati da un’esaltazione senza pari. Alla fine si troveranno entrambi per terra, ebbri di gioia. In attesa della finale di Berlino di sabato, quella del 1996 rimane l’ultima Champions League vinta dalla Juventus. Ciro Ferrara è stato protagonista su Sky di uno speciale su quella edizione. Sky che, peraltro, coprirà l’evento di sabato con una lunga diretta, con Sky Sport 24 che andrà in onda con tre edizioni quotidiane live da Berlino e con l’ampio prepartita a partire dalle 19 su Sky Sport 1.
Penso ai giocatori di Juventus e Barcellona in questo momento, e a quanto sia difficile sopportare un carico di pressione simile. Sono curioso di chiedere a Ciro se non sia meglio assistere da fuori a eventi del genere: «Con l’età, magari… magari ti rispondo di sì. Oggi vedo il rettangolo di gioco e mi dico: ma come ho fatto ad andare avanti e indietro per così tanto tempo? Però, ti dico la verità, quando sei lì dentro, a preparare una sfida del genere, vuoi esserci, tensione o non tensione. L’adrenalina cresce, le emozioni sono indimenticabili. Vivi un’esperienza irripetibile». Messi da una parte, Tevez dall’altra, poi Iniesta, Pirlo, Buffon… tutti giocatori che hanno già disputato una finale di Champions. E allora pensi che, in fondo, loro in qualche modo sono abituati ad appuntamenti del genere, e magari soffrono meno l’attesa. «Dico la mia, le finali di Champions che ho giocato sono state tutte cariche di tensione. Allo stesso modo. Prima volta o quarta volta, poco cambia», svela Ferrara. «È tipico delle finali di Champions. Per esempio, nel 1996 andammo a giocare la Coppa Intercontinentale a Tokyo: caspita, ti stai giocando la possibilità di diventare campione del mondo, è una partita unica. E però confesso che la stretta che sentivi addosso non era nemmeno lontanamente paragonabile a quella di una Champions».
Ok, il gran giorno è arrivato. Probabilmente hai dormito male, ti stai crogiolando in un’attesa snervante, non vedi l’ora di scendere in campo. Come ci si comporta? «Tutta la settimana non fai che pensare alla partita. La vivi in anticipo, ti fai mille domande: come posso fermare l’avversario? Io vivevo l’attesa con tanta tensione, ma non con timore. Non ci sono modi particolari per combatterla, anche a livello di spogliatoio non c’erano particolari discorsi o incitamenti. Preparavamo la finale come le altre partite, ci soffermavamo sugli aspetti tattici e via». Del 1996, Ferrara ha un ricordo particolare delle ore imminenti la partita. «Il pullman. Il tragitto dal ritiro all’Olimpico. Muoversi verso lo stadio è sempre un momento particolare, ma quella volta di più. Mentre ci avvicinavamo, osservavamo un fiume impressionante di persone, erano tutte lì a fare il tifo per noi. E lì avvertivi la responsabilità che avevi, però dovevi restare razionale».
C’era un giocatore che aveva vissuto la vigilia peggio degli altri? «Luca Vialli era uno di questi. Anche perché, a differenza degli altri, lui una finale di Champions l’aveva già giocata, e persa. E, diciamoci la verità, in quella partita aveva fatto qualche cazzata». Lo stesso Vialli aveva ammesso, come già raccontato su Undici, di non voler calciare il rigore nella serie finale, perché un eventuale errore gli avrebbe provocato «un forte contraccolpo psicologico». Ciro Ferrara, invece, il rigore lo tirò. «Non sono mai stato uno specialista dal dischetto. Me lo chiese Lippi. Gli dissi: “Ok mister, però tiro il primo, non voglio mica tirare quello decisivo”. Peraltro in quella partita non ero nemmeno al top della condizione: avevo giocato con un’infiltrazione, perché in settimana Di Livio in allenamento mi aveva fatto un’entrata mica da ridere. Da quando sono partito da centrocampo fino al dischetto, avrò cambiato nella mia testa lato della porta almeno tre volte. Di qua, anzi di là. Pensavo a tutti quelli che mi stavano guardando. Pensavo alla mia famiglia: non mi avevano mai visto tirare un rigore, si staranno cagando sotto peggio di me, dissi tra me e me. Alla fine calciai di forza, incrociando. Era la maniera più sicura per far gol. Van der Sar intuì ma non ci arrivò».
La finale di Champions del 1996. Al minuto 4.19 l’esultanza di Ferrara
Sette anni dopo, ancora finale di Champions, ancora rigori. Ma stavolta Ferrara non calciò: «Quella con il Milan fu una partita tiratissima, e io alla fine ero troppo stanco. La delusione fu forte, ma non so se la più forte. Anche le finali perse del 1997 e del 1998 furono un duro colpo. Forse quella con il Real fu peggiore, perché non giocai. Mi ero infortunato a tibia e perone e si soffre ancor di più guardando la partita da fuori, c’è il rammarico di non poter dare una mano alla squadra. Dopo la finale con il Borussia Dortmund, invece, ricordo che staccai completamente, andai in vacanza e non volli saperne più nulla. Però sai una cosa? Dalle grandi delusioni nascono i successi. Per esempio, Perugia nel 2000. Perdiamo 1-0, addio scudetto. Avevo 33 anni, in quel momento pensai: diamine, è finita, non vincerò più un campionato. E poi ne vinsi altri due».
Molto si è detto su una certa insofferenza della Juventus rispetto alle finali di Champions. Nella sua storia, si contano cinque volte in cui i bianconeri sono arrivati a un passo dalla coppa, senza poi vincerla. Cinque, un record, detenuto insieme a Bayern e Benfica. «Difficile da spiegare. Le ultime volte, poi, siamo sempre partiti da favoriti. Nel 1997, contro il Borussia, tutto sembrava a nostro favore, sembrava tutto apparecchiato per la nostra vittoria. L’avevi appena vinta, quella coppa. Poi in campo è tutta un’altra cosa. E ricordo che l’anno prima, quando giocammo con i campioni in carica dell’Ajax, la situazione era diversa. Alcune dichiarazioni di Van Gaal ci diedero fastidio, e diciamo che furono piuttosto determinanti nel caricarci».
Possiamo considerarlo dunque un vantaggio per la Juve, essere sfavorita nel duello contro il Barcellona? «Sì, potrebbe. Però stavolta entrambe le squadre arrivano nelle identiche condizioni, avendo vinto campionato e Coppa nazionale. Ed entrambe hanno avuto molto tempo per preparare la finale, visto che si gioca a giugno per la prima volta. Per noi invece la stretta vicinanza tra epilogo di Champions e ultime giornate di campionato fu una cosa molto penalizzante. Nel 1997, nel 1998 e nel 2003 vincemmo il campionato, e perdemmo la Champions. La Serie A era sempre un torneo tirato fino alla fine, indubbiamente qualcosa lasciavi per strada».
Suggerimento ai bianconeri per sabato? «Sicuramente l’assenza di Chiellini è pesante, perché ti toglie un giocatore con un carisma incredibile. Ma Barzagli, anche se non al top della forma, è un grandissimo difensore. La Juve dovrà giocare da squadra italiana, compatta, puntando su ripartenze veloci. Insistere sulle proprie caratteristiche, proteggersi e spaventare gli avversari».