Sarri e il senso di una fine

Il salto in una grande squadra in età "avanzata". Che ne sarà di Sarri, sacchiano, ma preceduto da esempi come Maifredi, Orrico, Simoni?

Maurizio Sarri ama la letteratura, e ama parlarne. Sul podio dei suoi scrittori preferiti mette Mario Vargas Llosa. Per il resto è di gusti piuttosto beatnik e americani: sugli altri due gradini ci sono Charles Bukowski e John Fante. Chissà se di quest’ultimo Sarri ha letto La Confraternita dell’Uva, romanzo in cui Mario Molise, insieme ad Arturo Bandini, uno degli alter ego dell’autore, si confronta con la soverchiante figura del padre, con la vecchiaia sua e quindi con la propria, infine con la morte.

Il “valzer delle panchine” dell’estate 2015 non è stato granché interessante. Le novità sono poche e gli avvicendamenti tutti annunciati: nessuno può dirsi stupito dall’esonero di Filippo Inzaghi, dal mancato rinnovo di Rafa Benítez o dalle dimissioni di Vincenzo Montella. Che Mihajlovic fosse in rampa di lancio per una squadra di lignaggio superiore era nell’aria. Lo stesso si potrebbe dire di Sarri, già accostato proprio al Milan. L’approdo del tecnico toscano sulla panchina partenopea è un balzo repentino dalla provincia alla metropoli, ma non spicca per questo. La storia della Serie A, anche quella recente, è ricca di casi del genere. Gli ultimi: Antonio Conte è diventato allenatore della Juventus forte di due promozioni dalla B (Bari e Siena) e un esonero (Atalanta), Massimiliano Allegri del Milan con due stagioni in massima serie, entrambe col Cagliari e con la seconda finita male. L’anomalia Sarri, allora, risiede nel dato anagrafico: è un allenatore che compie il grande salto in età matura, a 56 anni. Per dire: Arrigo Sacchi, modello a cui il toscano si ispira e al quale ultimamente spesso viene accostato, si è seduto per la prima volta sulla panchina milanista a 41 anni.

Empoli-Napoli 4-2, una delle migliori vittorie di Sarri

Negli ultimi tempi in Italia c’è stato un altro fatto a suo modo insolito. Nelle sale è uscito Youth – la Giovinezza di Paolo Sorrentino. Direte, a ragione, che non c’è da sorprendersi se un premio Oscar torna a dirigere. Invece di veramente singolare, nell’ultimo film del regista napoletano, c’è il tema. Nella società dei consumi l’ancestrale interrogativo sulla vecchiaia e sulla morte si è sublimato in un tabù di cui è meglio parlar poco. Il cinema non fa eccezione: «Finita la stagione dei grandi registi degli anni ’50 e ’60, la settima arte ha voltato lo sguardo e non propone più riflessioni sull’argomento» commenta Vincenzo Esposito, storico del Cinema all’università Federico II di Napoli. «Oggi l’iniziativa rimane ad autori considerati alti, mentre Sorrentino lo affronta col suo stile felliniano e leggero». Malgrado il titolo faccia pensare ad altro, Youth è una meditazione sulla vecchiaia e sulla dignità da assegnarle. È un’opera che non si offre a una lettura univoca, ma che apre un ventaglio di interpretazioni ed esiti.

Sorrentino, malinconico quanto visionario, ha rotto gli indugi con la sua macchina da presa. Tornando al calcio, invece, ci mancano, in questo caso, gli strumenti di analisi. Esiste una letteratura scientifica sulla depressione che colpisce gli atleti professionisti all’abbandono delle attività, ma qui parliamo d’altro. Che effetto abbia per un allenatore, titolare di un mestiere dalla longevità variabile, incontrare sull’ultimo tratto di strada la grande occasione della vita è un argomento che cade nel cono d’ombra dell’analisi. Per interpretarlo, allora, rimangono i classici del cinema.

AC Milan v Empoli FC - Serie A

Nei primi anni ’90 il modello del Milan di Sacchi, e ancor di più la voglia di replicare il suo successo altrove, hanno portato due neofiti alla guida di club di assoluto prestigio. Due vecchi pistoleri alla Unforgiven di Clint Eastwood all’ultimo duello della loro cavalcata nel calcio, si può dire col senno di poi. Uno di loro è Corrado Orrico, una vita nei club minori toscani, fautore con il modulo di suo conio della “WM a zona” di una Lucchese capace di dare spettacolo e di sfiorare la A. Nell’estate del 1991 Orrico subentra al Trap alla guida di un’Inter fresca vincitrice della Coppa Uefa. Nel giro di un mese passa dal contendere la promozione all’Ascoli all’allenare la Beneamata dei tedeschi, di Walter Zenga e di Baresi senior. Orrico è un tipo malinconico. La fronte sempre corrucciata, gli occhi cadenti anche quando sorride, all’ombra della Madonnina è un pesce fuor d’acqua. Nella metà bauscia di Milano rivendica il suo «stipendio da operaio specializzato», così da sentirsi «in sintonia col partito che ho sempre votato». Predica un calcio corto e aggressivo, ma a settembre è già fuori dalla Uefa per mano del Boavista. I risultati in campionato non arrivano. A gennaio del 1992, pochi mesi prima del cinquantaduesimo compleanno, Orrico rassegna le dimissioni.

Nel 1971 Luchino Visconti porta al cinema Morte a Venezia, riduzione dell’omonimo romanzo di Thomas Mann. Il regista dal sangue blu aveva già affrontato qualche anno prima con Il Gattopardo il topos del trapasso storico, quindi non ha problemi a gettarsi in un’opera che, tra le altre cose, racconta la fine della belle époque e la decadenza di un’Europa a un passo dalla Grande Guerra. Ma, ancor di più, Morte a Venezia è un film su Gustav von Aschenbach, artista chiuso in se stesso, non troppo vecchio ma debilitato dalla malattia, che ripara in laguna per curarsi dal male che lo attanaglia, e che invece qui incontra la fine dei suoi giorni.

Von Aschenbach è un uomo solo. Così è stato Orrico nella breve esperienza alla Pinetina. L’artista dipinto da Mann e ripreso da Visconti si invaghisce dell’adolescente Tadzio, in uno slancio d’amore solipsistico e fatale che lo convincerà a rimanere a Venezia malgrado un’epidemia di colera. Morirà sulla spiaggia. La stessa ossessione si legge nella dedizione dell’allenatore toscano per “la gabbia”, il suo grande contributo al metodo calcistico.

La gabbia: il “maestro di Volpara” (così lo chiamava Gianni Brera) ha teorizzato un rettangolo di gioco dalle dimensioni variabili dove affinare il piede dei propri calciatori, e nell’estate del 1991 la sua principale richiesta al presidente Pellegrini non è uno sforzo sul mercato (se si esclude l’acquisto del difensore della Lucchese Marcello Montanari), ma la realizzazione della struttura da lui ideata. La dirigenza ambrosiana investe centinaia di milioni di lire per la costruzione di un impianto mai gradito ai giocatori e presto caduto nel dimenticatoio. Prima di essere convertito in un campetto coperto da usare nei giorni di brutto tempo, la Gabbia ad Appiano Gentile è stata il monumento al cupio dissolvi di Orrico.

Sarri pensieroso, in Torino-Empoli. Valerio Pennicino/Getty Images
Sarri pensieroso, in Torino-Empoli. Valerio Pennicino/Getty Images

Youth, si diceva, propone più di una soluzione alla sfida della terza età. Siamo a rischio spoiler, ma si può dire che Harvey Keitel interpreta Mick Boyle, anziano ma volitivo regista in ritiro con un gruppo di sceneggiatori per scrivere l’opera che rappresenterà il suo testamento artistico e morale. Le cose, però, non procedono in maniera degna e, tra le difficoltà nel definire il finale della storia e l’abbandono del progetto della star che doveva dare lustro alla pellicola, il film è destinato a non vedere mai la luce, con conseguenze drammatiche sull’autostima di Keitel-Boyle. Lo stesso anticlimax ha attraversato la parabola di Gigi Maifredi, mister di provincia promosso sulla panchina della Juve nel 1990. A Torino lo porta Luca Cordero di Montezemolo, impressionato dal suo “miracolo Bologna” (dal ritorno in A alla qualificazione europea) e intenzionato a duplicare il modello Sacchi. Maifredi, come Orrico, eredita la squadra che si è appena aggiudicata la Coppa Uefa, e, come Sarri (ex bancario), non ha vissuto solo di pallone: è stato rappresentante di un’azienda di spumante, cosa che gli si ritorcerà presto contro con riferimenti ironici al suo “calcio champagne”. Alle sue dipendenze ci sono giocatori del calibro di Totò Schillaci reduce dell’exploit a Italia ’90, Thomas Hassler campione del Mondo in carica e Roberto Baggio, più i giovani Pierluigi Casiraghi e Paolo Di Canio. Gli ingredienti per mettere in pratica la sua idea di gioco veloce e spettacolare ci sarebbero tutti. Ma la sua epopea in bianconero inizia con un poco lusinghiero 5-1 in Supercoppa Italiana contro il Napoli e finisce, dopo un buon girone d’andata, con un mesto settimo posto e squadra fuori da tutte le qualificazioni. L’esperienza alla Vecchia Signora termina così. Maifredi è più giovane di Orrico, ne avrebbe ancora di cartucce da sparare, ma il suo passaggio alla Juve anziché essere premessa di grandi cose è l’inizio della fine. Così come Keitel in Youth opta per il suicidio (ok, abbiamo ceduto allo spoiler), il tecnico bresciano inanella una lunga serie di esoneri (da Genoa al Brescia, passando per il ritorno al Bologna e le esperienze estere alla tunisina Espérance e alla spagnola Albacete) prima di arenarsi nei salotti tv. Non perde mai il sorriso, però, e Maurizio Crosetti nel 2004 ha modo di ritrarlo così: «Assomiglia a quei personaggi dell’ultimo Tognazzi, vecchissimi ragazzi dolenti, vitelloni alla deriva, ma liberi e sinceri».

Si avvia verso una tragedia alla Orrico, un dramma alla Maifredi o una commedia alla Simoni?

Ancora in Youth Michael Caine indossa i panni di Fred Ballinger, direttore d’orchestra âgée risoluto a godersi la stasi della pensione prima che gli eventi della vita lo convincano che, malgrado tutto, è ancora presto per appendere la bacchetta al chiodo. Non sappiamo che idee avesse per il suo futuro il 58enne Gigi Simoni, buona carriera da calciatore alle spalle ed etichetta di “mister promozione” in quella da allenatore. Probabilmente, forse, immaginava che il canovaccio sarebbe rimasto in linea con l’exploit alla Cremonese, riportata in A e tenuta in massima serie per tre stagioni. Nell’estate del 1998, invece, Simoni entra negli uffici della Saras da tecnico appena esonerato dal Napoli, dove il suo passaggio è stato rapido ma intenso, e ne esce con l’incarico di allenatore dell’Inter. In 24 mesi passa dalla coppa Anglo-italiana alla lotta Scudetto, da Florijančič al giocatore più forte degli anni ’90, il brasiliano Ronaldo. Ha una coda amara l’esperienza del tecnico all’ombra della Madonnina: certo la squadra non incanta, ma viene esonerato dopo i successi su Real Madrid e Salernitana. La notizia, beffa definitiva, gli arriva durante il viaggio di ritorno da Coverciano, dove ha appena ritirato il premio della Panchina d’Oro. Massimo Moratti non è mai stato dolce con i suoi allenatori (anzi), eppure proprio sulla cacciata di Simoni riconoscerà: «Uno dei miei errori peggiori». Coda amara, si diceva, ma esperienza ricca. Gigi, oggi dirigente della “sua” Cremonese, ha portato i Simeone e i Djorkaeff alla vittoria della Coppa Uefa, l’ultimo titolo per la Beneamata prima del ciclo manciniano-mourinhano. E se nel palmarès non vanta anche il Tricolore dipende forse da un’entrata di Mark Iuliano sul “Fenomeno” che ancora oggi a parlarne suscita polemiche. Il bilancio per Simoni è positivo: grandi campioni e affermazioni in campo internazionale quando l’età dei sogni sembra alle spalle.

E Sarri? Si avvia verso una tragedia alla Orrico, un dramma alla Maifredi o una commedia alla Simoni? Nelle interviste fin qui rilasciate da dipendente del Napoli il tecnico ha dimostrato due cose. La prima è che è orgoglioso della gavetta che in quindici anni gli ha visto scalare tutte le categorie, è consapevole di avere davanti un’opportunità unica, probabilmente l’ultima, per fare qualcosa di grande. La seconda è che non è scontato che ci riesca. A noi non rimane che comprare i pop corn alla buvette, prendere posto in sala e goderci lo spettacolo.

 

Nella foto in evidenza, Sarri in maggio, contro il Torino (Valerio Pennicino/Getty Images). Nel testo, in azione contro il Milan (Maurizio Lagana/Getty Images).