Ricominciare, ancora una volta. Ripartire, «perché il nostro obbiettivo è dimostrare che Rafa è ancora il migliore». Parla così Toni Nadal, zio e allenatore, oppure allenatore e zio, tanto è lo stesso. Parla così, sempre al plurale, “noi vogliamo”, “noi facciamo”, perché tra lui è Rafa non c’è solo un legame di sangue, ma c’è quello che tiene insieme una squadra, un modo di vivere il tennis, una maniera di esistere: «Quello che conta non è solo saper giocare bene. È diventare una persona migliore». Onore e rispetto, «perché l’aspetto determinante è essere coach ma anche essere zio. E non avrei mai potuto avere con me un ragazzo maleducato, insolente, senza carattere». Rispetto, è questa la ricetta con cui Toni Nadal ha costruito un campione. Ma come si ricostruisce?
Obiettivo Melbourne, ancora una volta: qui Rafael ha vinto uno dei suoi 14 titoli dello Slam. Era il 2009, sembra una vita. Qui la squadra Nadal riparte, dopo aver vinto il Mubadala World Tennis Championship, torneo di esibizione di Abu Dhabi, per quel viaggio cominciato tanti anni fa da Manacor, dall’isola di Maiorca, con un talento strappato ai campi di calcio per la racchetta. Già, il talento, «ma non quello che pensate voi. Cos’è il talento? Provate a pensarci…». Zio Toni qualche settimana fa era a Milano, parlava davanti a più di duemila imprenditori presenti al World Business Forum della sua storia di allenatore, di uomo, uomo-azienda perché no. Seduto a quattr’occhi in una saletta discuteva anche, appunto, di talento, che non è – dice – solo saper colpire la palla in un certo modo, magari senza sforzo perché la natura ti ha regalato qualcosa.
«No, il talento è saper soffrire, saper imparare: Federer ha talento, Djokovic ha talento, ma non solo per quello che pensate voi. Perché sono ancora lì, a soffrire, a migliorarsi. Ferrer ha talento, e voi non lo direste: ma guardate che giocatore è diventato con i mezzi che aveva… Ci sono giocatori che da piccoli non sanno esprimersi ma poi imparano a migliorarsi ogni giorno. E allora, secondo voi: chi ha più talento? Nadal o Fognini? Ovvio, claro: perché Rafael nonostante tutto è pronto a ricominciare, e ricominciare a vincere. Ci vuole forza fisica, ci vuole forza mentale. E noi siamo pronti».
La finale di Melbourne del 2009 contro Federer, l’unico successo di Nadal in Australia.
L’Australia, dunque, quella dove Rafa gira sempre con lo stesso autista: si chiama Ian e, da quando lo porta avanti e indietro durante i giorni del circuito, più che un accompagnatore è diventato un vero amico. Rafael lo vuole sempre con sé, ogni anno: gli si siede accanto sul sedile davanti e comincia a parlare di tutto, tranne che di tennis spesso. «Claro, perché mio nipote sa una cosa importante, quella che gli ho insegnato: lui è speciale, quando è in campo davanti a 20mila persone che lo guardano. Ma appena esce dal campo diventa uno come tutti, un ragazzo normale. Questa è la cosa più importante, così si diventa un campione. Così io ho voluto che diventasse».
Questione di testa, forse. Dicono che questo sia il tennis, «ma no, non è vero, disgraziatamente non è questo. Me gustaria mucho fosse così, io sono un amante degli scacchi, mi piace la strategia. Ma chi dice che il tennis è una partita di scacchi in cui si corre, sbaglia tutto: oggi è un gioco troppo veloce, è una successione di colpi, contano solo quelli. Si parla tanto di testa, ma poi quelli che hanno testa casualmente sono sempre i migliori. Se ci sono i colpi, poi funziona anche il cervello».
Ci vuole un fisico bestiale, quello che è mancato a Rafa nell’ultimo anno e mezzo, quello che ha ancora questa generazione di vecchi che una volta sarebbe stata spazzata via dalla freschezza: «Djokovic, Federer, Murray e naturalmente Nadal, una generazione fenomenale, gente che ogni settimana vuole dimostrare di essere ancora la migliore. Ecco perché adesso non ci sono nuovi Nadal, giocatori che cominciano a vincere tanto già a 17-18 anni: un po’ la gioventù cresce più tardi, resta più a lungo sotto la tutela dei padri, mentre noi a quell’età eravamo già pronti ad affrontare la vita; e poi è cambiato il concetto di giocatore, la voglia di soffrire. Oggi c’è più immagine che sostanza, in tutti i campi: in tv, in politica, nel giornalismo. E nel tennis: ti aspetti di vedere gente preparata e invece spesso in giro ti accorgi che la preparazione non conta più». È l’era, in pratica, della mala educaciòn.
La maleducazione del tennis, quella di cui per esempio sono accusati i giovani australiani d’oggi, i campioni di un gioco sempre al limite: «Io ho costruito Rafa su principi fondamentali. Bisogna avere rispetto di se stessi, degli altri, degli avversari. Vincere non deve essere un’esagerazione, perdere non deve essere un dramma. Sono due facce della stessa medaglia, sono tutte e due importanti, fanno parte del gioco. Io ho voluto, anzi preteso, che Rafa non cambiasse mai atteggiamento davanti all’una o all’altra e se parli con lui capisce che non hai di fronte a te una stella, ma una persona normale. Questo è il punto di partenza per costruire un uomo e se poi questo uomo è anche allenato e pronto ai sacrifici, diventa un campione. E allora è pronto anche a sopportare i momenti difficili di una carriera. Purtroppo non tutti sono in grado di farlo: sì, è vero, in giro c’è troppa maleducazione».
Ricominciare, si diceva, dopo un periodo in cui Rafa non è stato più lui: gli infortuni, le ginocchia, l’appendicite. La frustrazione. «Ma l’importante è sapere che il momento arriva. Ed è arrivato: agli Us Open abbiamo perso con Fognini, ma lì abbiamo capito che stava cambiando qualcosa». Abbiamo, ancora una volta: «Il livello di gioco di Rafael è tornato ad essere più costante: lo ha dimostrato a Pechino, a Basilea, a Parigi. Sempre meglio e sempre più vicino ad essere il Nadal che era». Ma allora, come si ricostruisce un campione? «Ci vuole pazienza, psicologia, capacità di sopportazione. Ovviamente tanto lavoro fisico per tornare ad essere al livello dei migliori. Quasi ci siamo». Ovvero siamo a Melbourne, di nuovo, «e ci arriveremo per vincere. Il nostro obbiettivo è vincere in Australia e a Parigi, ma solo perché sono i primi due Slam della stagione. E poi anche a Roma, che Rafa non conquista da un po’ di tempo. Troppo tempo. Sì, siamo pronti per vincere di nuovo: naturalmente per mio nipote la terra rossa è la superficie più importante e quindi, claro, il Roland Garros sarebbe un sogno. Ma Melbourne è il primo obbiettivo per tornare a correre nel 2016, anche se in realtà non è il più importante: il vero traguardo è fare il meglio che possiamo per tornare a vincere. Questa è già una vittoria».
La finale vinta contro Raonic nel torneo di esibizione di Abu Dhabi.
Todo se puede entrenar, così si ricostruisce un Nadal. Tutto si può allenare, è diventato anche il titolo di un libro in cui Toni ha messo per iscritto la sua filosofia e forse anche l’ultima parola, perché dopo Rafa probabilmente non ci sarà nessun altro. «Però non è vero che ho detto di non voler fare più il coach in futuro: la verità è che non mi vorrà più nessuno. Non ho più l’età per sopportare giovani senza rispetto e le loro famiglie. Con Rafa la famiglia siamo noi e il rispetto è quello di cui non possiamo fare a meno». In pratica, il giullare è diventato re, come recita una frase di Vargas Llosa che Toni cita nel suo libro. Solo che poi – a volte – succede che i re tornano sul trono. E magari proprio a Melbourne.