La memoria di ogni uomo è la sua letteratura privata, ha scritto Aldous Huxley. Quella che condivido con lo Stadio Olimpico è fatta di grandi campioni e di grande calcio, ma soprattutto di grandi pubblici che di questi campioni hanno innescato le reazioni, e le affermazioni. Zidane, Buffon, Del Piero, Messi, Iniesta, Ronaldinho, Maldini, Beckham, Pirlo, Figo, Ibrahimovic, Batistuta e, ovviamente, Totti. Sono solo alcuni dei nomi che ho visto sfidarsi su quel prato verde, da spettatore ospite e non residente. Per ognuno di questi nomi un sussulto, e una strofinata sugli occhi. Ci penso mentre distribuisco il caffè macinato nella tazzina, mezz’ora prima di uscire da casa e incamminarmi verso lo stadio, per assistere a quella che potrebbe essere la prima giornata del resto della vita della Roma 2015/16, dopo un intero girone di false partenze e involuzioni di gioco e risultati.
Se la qualità del rapporto tra un uomo e lo spazio che lo circonda si potesse misurare in base al numero di cucchiaini di caffè che questi versa nel filtro a imbuto, direste di me che sono una persona che ha paura dei vuoti. Ma dipende da cosa si intende per vuoto.
Piena, ad esempio, e febbrile, è stata la settimana mediatica che ha condotto dal pareggio col Milan all’esonero di Rudi Garcia, e quindi al ritorno di Luciano Spalletti sulla panchina giallorossa. Pieno è inoltre una qualità che si addice all’intreccio di storie e significati che animano il giorno di Roma-Verona, quello in cui la memoria collettiva del pubblico romanista si prepara a ripercorrere i codici numerici del suo più recente passato di successo: 4-2-3-1. Una sequenza che parla di equilibrio e di ricerca dell’armonia: 4, il serbatoio dell’acqua; 2, il filtro a imbuto; 3, il caffè macinato; 1, il bricco.
Vuoto, e aggiungerei a perdere, è stato il rapporto tra i posti a sedere dell’Olimpico e quelli effettivamente occupati in questo giorno così pieno di significati sportivi: 27.706 abbonati e 6.003 paganti. Tutti numeri che, una volta acquisiti, hanno supportato il colpo d’occhio del fischio d’inizio, quello di uno stadio mezzo vuoto. Del dibattito su quali siano le cause che precedono questo dato e quali le possibili soluzioni è vigliacco fare carico a un cronista, tanto più se circondato da sensazioni ambientali assuefatte alla circostanza e ormai molto più incentrate sulla partita. Fatto sta che se il calcio finisse domani quello romano e romanista avrebbe salutato l’universo affidando le reazioni di una settimana così piena ai social, e non al campo. Ma per fortuna il mondo non sta per finire, c’è tempo.
E in fondo dev’essere stata questa la riflessione che ha accompagnato Luciano Spalletti nel suo ritorno a casa, dopo la fine della partita. Luciano Spalletti l’artefice degli ultimi trofei vinti, Luciano Spalletti il regista di una serie di film che ci hanno messo poco a diventare dei classici, e che hanno richiesto un secondo tempo. Anche lui deve aver pensato che c’è tempo per prendere tutte le sottotrame di questa giornata e cucirle insieme, per costruire un finale migliore.
Dei 9 punti totali collezionati finora dal Verona due le sono stati ceduti dalla Roma. Il pubblico presente non manda giù volenteri questa circostanza, e rumoreggia concentrandosi sui 4 punti che ritiene persi nel computo finale. Legittimo, il risultato non premia i padroni di casa con il rilancio sperato. Lo stesso Spalletti in sala stampa avrà l’aspetto di chi fatica ad accettare questo epilogo, figlio di una domenica in cui a ogni contropiede subito si è messa alla prova la pazienza di un pubblico dimezzato, che non sapendo che pesci prendere si è limitato a prendere atto dello stato di difficoltà. Nell’onestà spoglia di un pareggio con l’ultima in classifica, infatti, si sono viste tutte le cose che hanno complicato il cammino della Roma fino a ieri, è vero, ma anche barlumi di novità che questo cammino potrebbero finalmente semplificarlo. Una su tutte, l’idea di gioco: propositiva, collettiva, equilibrata, vivace, che si è spenta nel secondo tempo ma che nel primo tempo ha avuto solo il torto di non essere supportata da una freddezza e una tranquillità che oggi sarebbero una panacea per questa squadra. Ma un cambiamento c’è stato, è innegabile, se non altro nel numero delle occasioni e nella grinta con cui si è cercato il gol. Il pubblico questo l’ha riconosciuto e ha lasciato che gli addolcisse il caffè amaro, per quanto gli sia costato ammetterlo. Ad animare questo tentativo andato a vuoto, altre storie nelle storie, alcune drammatiche e altre incoraggianti: l’oroscopo dei giallorossi deve essere stato variopinto, domenica mattina.
Edin Dzeko, ad esempio, non lo sa ma è più fortunato del Tantalo di cui rivive il supplizio. Il suo malessere in campo presenta il conto al suo benessere fisico e, ogni volta che si avvicina al cibo per sfamarsi, il gol si allontana. Tuttavia, a differenza del suo omologo mitologico, a condannarlo ai primi fischi dell’Olimpico non sono gli dei, è la sua stessa paura di fallire. A fargli compagnia dall’altra parte della medaglia c’è un generoso Leandro Castán, che a differenza di Dzeko i limiti non se li impone ma stoicamente decide di negarli, e forza i tempi di un recupero che va oltre la sua volontà o la capacità oggettiva di tornare a correre. In questo il pubblico non solo lo ha capito e sostenuto, ma ha deciso di continuare ad aspettarlo. Per alcune cose, è fisiologico, ci vuole più tempo di quello che si spera, come per un giocatore indipendente quale Salah nel muoversi con disinvoltura in un contesto estremamente tattico, o per uno incline al sacrificio come Florenzi nel rialzare la testa dopo un periodo di prestazioni nervose.
Per altri il tempo torna a essere galantuomo, come per Nainggolan che dopo mesi di corse a vuoto torna a esprimersi in un contesto che premia il suo spirito di iniziativa, o per uno Szczesny sempre più sicuro delle sue doti di salvataggio, ma soprattutto per un Daniele De Rossi che a quasi 33 anni si riscopre interprete molto più sfaccettato di quel doganiere della difesa in affanno che al suo pubblico era stato imposto negli ultimi 5-6 anni. La sua prima volta da playmaker a tutto campo suscita gli unici applausi spontanei del pubblico in una giornata da disillusi. Al suo assist vincente, da fantasista anni ‘90, risponde un rigore di quello che ormai è uno spauracchio sportivo per l’Olimpico, Giampaolo Pazzini, che a differenza di quanto accaduto in passato stavolta ha solo il ruolo di nemesi riconoscibile, di sicurezza infelice per il pubblico avversario, in una stagione di densa incertezza.
La nuova Roma di Spalletti parte come un film corale di gente che va in cerca di sé e gente che deve ritrovarsi, guidata da gente che sembrava perduta e che invece è stata ritrovata. Il resto dei boati del pubblico li strappano i legni, quelli a favore e quelli a svantaggio, che a una prima occhiata inchiodano la Roma a una riscrittura delle proprie ambizioni di grandezza. Ma per la seconda occhiata c’è ancora il tempo di altre diciotto lunghe giornate.
Se questo è un film epico ha un’insolita partenza intimista, ma già dalla prossima domenica è attesa molta più azione. Lo spazio c’è, nel filtro a imbuto, ora bisogna solo capire come distribuire il caffè macinato.