Scrivere di Tour e di girasoli

Intervista a Gianni Mura sul Tour che sta iniziando e su quelli passati, sui paesaggi francesi e sul giornalismo sportivo e non solo.

 

Dice che quando Repubblica lo lascerà a casa continuerà a partecipare al Tour a sue spese scrivendo pezzi per un giornale povero. Dice che quando non potrà più seguire il Tour si sentirà amputato di una parte del corpo (forse di una parte del cuore). Dice che il Tour è la Francia come la baguette, la voce di Édith Piaf, le Gauloises senza filtro e il pastis. Gianni Mura è pioniere del vecchio giornalismo del “colore”, l’ultimo scrittore-inviato al Tour de France che è l’amore della sua vita, oltre alla moglie Paola. «Ma non è gelosa, mia moglie». Ed è l’unico non francofono ad aver vinto il premio Blondin per la sua prosa: «Sì, è un premio molto importante. Blondin era giornalista de l’Equipe e scrittore che ha seguito il Tour per circa 25 anni. Meno occasionale di Buzzati, Pratolini, Gatto. Era proprio una firma. Siccome sono il primo non francofono a vincerlo mi ha fatto piacere. Anche perché era un premio legato alla scrittura. Hanno fatto una cosa carina sul podio: c’era il direttore del Tour, c’era Hinault che mi ha dato il premio, c’era un po’ di gente a batter le mani. Ero contento, ho pensato di essermelo meritato, in fondo».

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1979, il Tour passa da Fleurance sui Pirenei (Afp/Getty Images)

Gianni, tra non molto farai ritorno a “casa”, nella tua Francia, per il Tour. Sei impaziente?

Aspetto il Tour con relativa impazienza. Prima del Tour ho da seguire gli Europei, quindi non mi sono ancora calato nell’ottica. Diciamo che io entro nel Tour quando la macchina parte da Milano, allora mi carico di libri, cd, con l’addetto stampa di minimum fax Alessandro Grazioli. Per entrambi è come andare in ferie.

Sarà il 30° Tour da inviato, o meglio da suiveur, se così ancora si può dire: quanto e come è cambiata la Grande Boucle dal lontano 1967, anno della tua prima esperienza? 

Sono stato un suiveur per alcuni anni. Non mi ritengo più tale perché non sto in coda al gruppo e non lo sorpasso quando posso. La differenza più grossa è che non siamo più nel vivo della corsa, ma siamo spettatori un minimo privilegiati rispetto a chi sta a casa davanti alla tv. Poi magari io vado all’arrivo e vedo Nibali, riesco a strappare due parole. E questo è l’unico vantaggio, per il resto non ce ne sono. Questo è un cambio enorme e ti condiziona anche il modo di lavorare. Vanno pochissimi giornalisti italiani al Tour rispetto una volta. C’erano almeno dieci macchine di giornali. L’anno scorso ce n’erano tre: la Gazzetta, noi (Repubblica, nda) e il Corriere della Sera. Tra il momento di crisi, il fatto di risparmiare, il fatto che si spende più volentieri per il calcio… Adesso che c’è Nibali almeno qualcosa in più c’è. Questo mi spiace perché il Tour è il Tour anche se il primo italiano arriva ottavo. Nei giornali non fanno questi calcoli per Wimbledon e Roland Garros anche se non vince un italiano. Mandano perché è Wimbledon, e al Tour bisognerebbe mandare lo stesso.

La prima immagine che ti viene in mente se pensi al Tour è sempre la stessa dal 1967?

Un campo di girasoli. È la prima immagine che mi aveva colpito sin dal ’67, ero nella zona tra Alby e Tolosa, a sud. Non è come vedere una cartolina. Se sei in mezzo a delle coltivazioni di girasoli che sono lunghe un chilometro, passarci di fianco ti impressiona.

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Cos’è il Tour de France?

Il Tour è qualcosa che anima il paesaggio. Il Tour è qualcosa che ha ancora l’effetto della festa del paese. È molto sentito dalla gente e anche nei paesi più piccoli, poveri. Mettono le bandierine, espongono delle bici d’epoca. Il fatto che il Tour le attraversi dà loro come una botta di vita e di colore. I francesi lo chiamano «fête de juillet». È come se fosse sempre domenica nelle tappe perché dove arrivi è una festa e per molti di questi paesi il Tour spesso segue strade secondarie. Un po’ per non dar fastidio alle grandi e un po’ per sua vocazione. E quindi attraversi davvero dei paesini che non ci sono neanche sulla carta geografica, per i quali l’unico avvenimento è che ci passa il Tour. Magari ci passa per 5 minuti ed è finito, però loro aspettano tutto l’anno. Montano le panchine, quasi sempre c’è un barbecue o comunque preparano delle robe all’aperto. Si organizzano bene con le bottiglie di vino, la birra, le salsicce e le bici e i festoni di carta, «vive le Tour», «merci le Tour». È qualcosa di ingenuo e anche di spontaneo.

Cosa ti piace di più della Francia?

Mi piace moltissimo la cultura, ma anche il fatto che la Francia è piena di licei “Jacques Brel”, palestre “Brassens”. È come se da noi ci fossero tantissimi istituti per geometri “De Andrè” oppure dei licei “Tenco”. Mi piacciono molto i loro scrittori, soprattutto i loro poeti, e moltissimo le loro canzoni. Già ero un po’ influenzato da ragazzo sui cantautori italiani. Io praticamente acquisto solamente cantautori francesi. E poi mi piace molto il rispetto per la natura e per il paesaggio che c’è da loro, è molto più alto che qua: la tutela del verde; la bellezza dei boschi. E anche la pulizia. Dopo quattro ore che è passato il Tour hanno già ripulito tutto, è tutto seminato di cesti per la raccolta di bottigliette, lattine. C’è proprio un servizio “scopa”.

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Brindisi nei dintorni di Rennes nel 1991 (Vincent Amalvy/Afp/Getty Images)

 

Perché il Giro in Italia non ha lo stesso peso del Tour in Francia?

Io credo che l’abbia avuto e non ce l’abbia adesso. Cinquanta anni fa era molto sentito il Giro, specie nel dopoguerra. Ma lì c’era anche da fare i conti con uno spirito nazionale che cercava di rimettersi in piedi in un Paese distrutto, quindi il Giro era una specie di filo che a modo suo ha contribuito a cucire il Paese. Si può dire che il ciclismo, che era una specie di sport nazionale, ha ceduto al calcio. Forse è mancato dopo Pantani quel campione che calamita l’attenzione. Forse c’è molta più diffidenza. Un po’ perché la bici curiosamente è uno strumento d’avanguardia. La bici in città, per esempio, ha sempre più praticanti. Il turismo in bici, la pista ciclabile. Tutto questo va benissimo con l’ecosistema. Il ciclismo competitivo forse meno. Come si dice, il bello della bici è che non inquina, non fa rumore, la metti dove vuoi, ti fermi quando vuoi, non occupi parcheggi. Andare in bici al massimo della velocità non rientra in questa specie di “decalogo verde” e quindi è meno considerata. Diciamo che i ciclisti professionisti sono politicamente scorretti in uno sport che fa molto discutere sull’etica. Ma di fondo credo che manchi una grande rivalità com’era ai tempi Binda-Girardegno, Coppi-Bartali. È finita con Bugno-Chiappucci.

Non è più possibile inviare al Tour o al Giro poeti e romanzieri come negli anni Quaranta e Cinquanta? Potrebbe esser un’ottima idea visto che lo storytelling è particolarmente in voga di questi tempi.

Credo che i giornali non credano più molto nello storytelling, mentre comincia a crederci la televisione, vedi il successo di Buffa per esempio. Molti direttori di giornali non credono più nel pezzo lungo e scritto con un buon italiano perché dicono che la gente non ha tempo di leggere e invece non è vero. Io ho sempre sostenuto che questa fosse una balla, se uno vuole il tempo lo trova. Dipende cosa dai da leggere ai lettori. Non è che ha perso il fascino il racconto, l’ha perso presso quelli che spesso fanno i giornali e decidono come farli. Questo è, purtroppo.

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Cap Frehél, in Bretagna, il tempo è quello che è ed è il 1995 (Pascal Rondeau/Allsport)

Il Tour de France è paragonabile a una chanson de geste?

Sì, assolutamente sì. E infatti è una delle chiavi in cui viene ancora interpretato. È la durata che lo rende ancora una chanson de geste. Dall’inizio alla fine hai gli stessi protagonisti che quasi sempre ricoprono dei ruoli da commedia dell’arte: il bel giovane, il vecchio che non vuol morire, il cattivo, lo sfigato. Se al posto di chanson de geste dici “poema cavalleresco” è ancora più simile. Così anche per il Giro. Poi c’è l’equivalente degli attacchi, delle imboscate, della difesa del fortino, dell’attacco. 

Sei uno degli ultimi pionieri, se non l’ultimo, dei pezzi “di colore”: che succederà quando smetterai di scrivere sul Tour?

A me che sarò molto più triste, al resto del mondo non me ne frega più di tanto. Io spero che continueranno a esserci pezzi di colore perché credo in questo tipo di giornalismo che è un giornalismo più lungo che corto, più umano che superumano. Di Pantani avevo detto che sembrava uno che aveva rubato la bici e aveva bigiato scuola. Credo che proprio la retorica l’ho schivata. E quindi per questo tipo di giornalismo mi dispiace. Forse rispunterà quando tutti si saranno stufati di leggere dei pezzi che sembrano dei verbali di polizia stradale e forse ci sarà qualcuno che riporterà in alto il genere. Non si ritiene più necessario mandare al Giro giornalisti-scrittori com’erano Buzzati e Pratolini, è più facile che li mandino per un Mondiale di calcio. Io vedo un barlume di speranza in questo senso: questo tipo di giornalismo, a tanti o a pochi, per quanto mi risulta ancora a tanti, continua a piacere. Ma è abbastanza difficile tenerlo in vita. Pratolini o Gatto erano sempre l’inviato in più, di letteratura, rispetto all’inviato ciclistico. Io ho potuto tenerlo in vita perché ho fatto il triplo inviato in una persona sola, quello che chiamo “effetto spugna”: faccio la corsa, l’essenziale delle interviste e se c’è del colore ce lo metto. Una persona costa meno di due come inviato. Il fatto che io parli dei girasoli è perché essendo lì sento il dovere di dare qualcosa di quello che vedo. Le fasi di corsa il lettore le ha già viste. L’importante è rispettare l’importanza delle cose, per cui se c’è una tappa veramente “a tutta” possono anche esserci 700 chilometri di girasoli e io ne parlo appena; se non è successo un cazzo e devo fare come minimo 85 o 90 righe allora ci metto anche il paesaggio.

Le Tour de France 2012 - Stage Fifteen
Rogers, Wiggins e Froome al Tour 2012 (Bryn Lennon/Getty Images)

 

Chi vedi favorito per il Tour di quest’anno?

Non è un percorso particolarmente difficile. Io non vedo bene l’accoppiata Nibali-Aru, né per l’uno né per l’altro, anche perché hanno due modi diversi di correre ed è più facile che uno dia fastidio all’altro che non aiuto. Quindi non la vedo come un’unione che fa la forza. Io la vedo ancora come una storia tra Froome e Quintana per i primi due posti, poi per il terzo non lo so. C’è questo francese, Pinot, che non è male, è migliorato a cronometro ed è uno anche abbastanza spavaldo, ha del galletto, però becca sempre due giornate storte e al Tour è già tanto averne una. Landa vediamo, non è abituato a fare il capitano. A malincuore dirò ancora Froome, che non mi è per niente simpatico.