Ognuno di noi confonde i limiti del suo campo visivo con i confini del mondo (Arthur Schopenhauer)
Per allargare i confini del proprio campo visivo, Giampiero Ventura ha preferito ridisegnare lo spazio praticabile del campo di gioco. L’ha fatto prima di molti altri colleghi, trasformando in un piccolo Camp Nou lo Stadio Regionale di Giarre, all’inizio degli anni ’90. Ha preteso due esterni larghissimi come Casale e Bachini ai tempi di Lecce, ha trovato un una collacazione a Vasari a Cagliari, e Cerci a Torino, in due epoche diverse, ha affrontato l’Inter di Mourinho a San Siro chiedendo ai suoi di coinvolgere Gillet, il portiere, nelle manovra. È tutto, sempre, con un’ossessione: allargare il campo, estendere i confini del (suo) mondo e di un calcio che l’ha portato da Nord a Sud, isole comprese, e che oggi gli presenta il conto: la panchina della Nazionale. E guai a dirgli che si tratta di un premio alla carriera, perché Ventura, a 68 anni, si sente all’inizio della carriera.
La vita di un allenatore è piena di sliding doors. Quella di Ventura ne è piena, ma se dovessi sceglierne una, partirei da una partita poco citata, dimenticata. Lo spareggio giocato nell’afa del Bentegodi, alla fine di giugno del 2007. C’è Rizzoli ad arbitrare, e lo stadio pieno di bandiere e sciarpe gialloblu. L’idea di tornare in serie C dopo 60 anni, è solo un presagio da allontanare. Basta rimontare una rete. Ma i minuti passano e i veronesi non riescono a passare. Piange Sibilano, alza lo sguardo verso la curva dell’Hellas Giampiero Ventura. E trova un colpo d’occhio inaspettato. Il pubblico che lo applaude e lo ringrazia per il miracolo sfiorato. Quella squadra, guidata da Ficcadenti, sembrava spacciata prima del suo arrivo. Avrebbe evitato persino lo spareggio se lo Spezia non avesse trovato una vittoria in casa della Juventus già promossa all’ultima giornata. Forse, se non ci fosse stato quell’applauso del Bentegodi, Ventura avrebbe addirittura pensato di smettere. Perché veniva da scelte sbagliate, come le panchine prese in corsa a Udine e Messina, retrocessioni già scritte, e da grandi delusioni come il primo improvvisato Napoli di De Laurentiis. C’era da reinventarsi, e in questi casi ci vuole un colpo di fortuna, o un impeto di incoscienza.
Verona-Spezia, playout di Serie B del 2007: lo 0-0 condanna i gialloblù
Quando ha iniziato ad allenare, Ventura, si è subito reso conto che il suo più grande pregio era quello di saper insegnare calcio. Educare i calciatori alla giocata, ad esplorare le proprie potenzialità. Nel suo piccolo, Ventura non è un Mourinho, che spreme i giocatori per ottenerne subito il risutlato, ma un Guardiola per la sua capacità di produrre attivo nei bilanci, triplicando il valore dei giocatori. È vero che Bonucci parla spesso del suo coach personale, ma è altrettanto evidente che il miglior motivatore di quello che oggi viene considerato tra i difensori più forti del mondo, è stato l’allenatore capace di lanciarlo dal primo minuto a San Siro, contro Milito ed Eto’o, dopo una retrocessione con il Pisa e un’esperienza tutt’altro che indimenticabile a Treviso. Educare i giocatori, trasmettergli la stessa incoscienza di chi, di fronte all’Inter di Mourinho, coinvolge il portiere nella costruzione del gioco. Basta chiedere a Gillet, all’epoca portiere e capitano del Bari, quanti palloni sia stato costretto a giocare, con l’obbligo di non buttarli mai via, il 23 agosto del 2009, invitato da Parisi, Ranocchia, Bonacci e dallo stesso Ventura. Tra battiti di cuore e imprecazione, e i tifosi che, inebetiti, e abituati ad anni di catenaccio, a Fascetti, Bolchi e Salvemini, si chiedono: «Ma siamo impazziti? Perché non spazza via ‘sto pallone?»
Ventura ritrova la Serie A dopo tre anni, e al primo colpo, sulla panchina del Bari, inchioda sull’1-1 l’Inter di Mourinho
All’inizio della carriera il maestro è stato costretto a scegliere lidi esotici, per predicare il suo 4-4-2. Sono gli anni dei seguaci di Sacchi: Zeman a Foggia, Galeone a Pescara, Maifredi e Scoglio che però iniziano già ad annaspare. E ancora Orrico, Oddo padre, i dimenticati Varrella e Nicoletti. Ventura sceglie un’isola, andando a fare miracoli a Giarre, in un periodo in cui stentavano le grandi di Sicilia. Il Palermo, il Catania, lo stesso Messina stanno mettendo le basi per scrivere dei gloriosi fine anni ’90, mentre nel frattempo comandano il Giarre e l’Acireale di Papadopulo, dopo che il Licata ha disputato un paio di stagioni in B. Ventura ottiene un sesto posto, e sa dalle piccole tribune di legno e lamiera del Regionale si sente distintamente il rumore del contatto tra cosce e polpacci e il trionfo sordo del pallone quando viene spazzato dalla difesa, il suo diktat è chiaro: allargare il campo. Il più stretto della Serie C. Ventura attira su di sé le attenzione di mezza serie B, ma sceglie il progetto più complicato. A Lecce c’è da ricostruire un ambiente che ha subito una doppia retrocessione. C’è da rifondare la squadra, e riportare il pubblico allo stadio. Niente di meglio per uno come lui. Se fino a quel momento Palmieri e Francioso sono due buoni attaccanti irrealizzati, con gli schemi di questo giovane e rampante allenatore con il ciuffo alla Little Tony si trasformano in bomber implacabili. Il Lecce disputa un campionato unico e lunghissimo, che inizia in serie C davanti a 1000 persone e finisce a Cesena, due anni dopo, con la promozione in Serie A, e 40.000 persone ad aspettare la squadra al Via del Mare.
Ma Ventura non è mai stato uomo particolarmente incline ai compromessi. La tanto agognata serie A viene rimandata di un anno. Non ci sono i presupposti per disputarla a Lecce, è tempo di raggiungere un’altra isola. La più amata, la Sardegna. A Cagliari è subito serie A, e stavolta non c’è Cellino che tenga, anche perché il rapporto tra i due è incredibilmente idilliaco. Tra le partite da ricordare c’è un 4 a 3 alla Roma di Zeman. I due cannonieri sono Muzzi, il cui valore viene quadruplicato, e il gigante Mboma. Ma il capolavoro viene compiuto con Fabian O’Neill, uno che lascerà il calcio a 29 anni: vita sregolata, botte, alcool e un passaggio alla Juventus dopo cinque stagioni a Cagliari dove Ventura ne intuisce e valorizza le qualità di centrocampista davanti alla difesa. Un Pirlo ante-litteram, insomma. Se vi capita di passare da Cagliari chiedete ai tifosi più grandi cosa ne pensano di Fabian, vi risponderanno semplicemente “grande giocatore”, come se tutto il resto non importi. E infatti a Ventura non importa, come non gli è mai interessato molto delle vite dei suoi fuori dal campo, e questo ne ha rappresentato, ad oggi, l’unico grande limite rispetto ad allenatori manager ossessionati dal controllo di tutti gli aspetti della vita dei giocatori. Del perché Cerci ha funzionato solo con lui e mai fuori dai suoi schemi, e del come mai al mister non è mai importato troppo di cosa stesse succedendo nello spogliatoio del Bari tra la fine del primo anno in serie A e l’inizio del secondo, culminato con l’esonero e una delle retrocessioni più brutte della storia dei biancorossi: quella del «Andava fuori, Andre» gridato da Gillet a Masiello dopo l’autorete contro il Lecce.
Cagliari-Roma 4-3, stagione 1998/1999
Ma Ventura aveva già salutato, con l’educazione che lo contraddistingue. Una conferenza stampa tra sorrisi e ringraziamenti, qualche lacrima e la promessa di tornare, un giorno. E infatti, fresco di nomina come CT della Nazionale, tornerà proprio a Bari a sposare Luciana. Tra i rimpianti c’è Genova, la sua Genova. Alla Sampdoria non riuscirà a raggiungere l’obiettivo minimo. La promozione sfumerà per un punto, e quello che doveva essere il culmine della carriera si trasformerà in un passaggio non ancora chiaro, difficilmente raccontabile, se non con le parole dello stesso Ventura «Qualcosa non ha funzionato, mi faccio da parte». È in quel momento che Ventura sceglie di tornare dove le cose avevano funzionato, dove era stato felice. Ma non sarà lo stesso. A Cagliari il remake finirà con un esonero (e Ventura che dirà «Sono arrivato a Cagliari con il ciuffo alla Little Tony, dopo 4 anni ho perso i capelli a furia di litigare con Cellino»), delle esperienze di Udine e Messina resterà poco, se non nel rapporto costruito con Massimo Donati, un suo fedelissimo, e Sasà Sullo che diventerà il suo vice. Quando il Verona lo chiama ci sarebbe solo da dire «no grazie, la situazione è troppo disperata», e invece Ventura accetta, perché di stare fermo proprio non ne ha voglia. Retrocede tra gli applausi, ma soprattutto trova Gianluca Petrachi, che fa il DS a Pisa, pronto a scommettere su di lui. E non sarà l’ultima volta. C’è una squadra appena tornata in B, tanta ambizione e non troppi soldi. Una città entusiasta e finalmente la possibilità di tornare ad insegnare calcio e magari allargare nuovamente i confini del campo.
Alla prima di serie B Ventura batte il Bari di Materazzi al San Nicola. Un segno del destino, ma soprattuto una lezione di calcio: Cerci, Kutuzov e Castillo incantano. L’argentino si prende lo sfizio di segnare 20 gol in Serie B. Nel frattempo Antonio Conte, che è retrocesso con l’Arezzo un anno prima, studia gli schemi di Ventura. Le sovrapposizioni degli esterni, lo scambio di ruolo tra ii mediani, il lavoro delle punte, l’impostazione del centrale difensivo. Alla prima di ritorno, all’Arena Garibaldi sarà proprio Conte, che nel frattempo ha sostituito Materazzi, ad affrontare il Pisa. Le due squadre se le danno (tatticamente) di santa ragione. La partita è speculare, finisce 1 a 1. Il Pisa perderà lo spareggio play off con il Lecce, il Bari si salverà. Ci sarà modo di riaffrontarsi nella stagione successiva. Che però inizia già sotto cattivi auspici per Ventura. La squadra viene praticamente smantellata, il Pisa cambia proprietà, gli obiettivi sono ambiziosi, ma i mezzi non altrettanto. La chiave della stagione è ancora una partita contro il Bari, in casa. Conte vince 1 a 0 e vola verso la serie A. Ventura lascia la panchina a Giordano che retrocederà all’ultima giornata. Il tempo di vedere una partita combattuta, su un campo ai limiti della praticabilità, e l’interessante prova, nei nerazzurri toscani, di un difensore di 21 anni che alterna chiusure da centrale europeo a rischi da sudamericano. Il ragazzo si chiama Bonucci, e Ventura lo vorrà con sé l’anno dopo, al Bari.
Nell’estate del 2009 Antonio Conte ha deciso di non rinnovare con la società di Matarrese. Troppi dubbi, rinforzi che non arrivano, e una storia che ricorda, in parte, quella che vivremo qualche estate più tardi con la Juventus. Perinetti si ricorda che l’allenatore si era ispirato a Ventura e contro ogni logica (e contro umore della piazza) sceglie proprio il genovese, il quale si presenta con una frase che diventa un mantra «Io alleno per libidine». I baresi sono tifosi che certe affermazioni se le segnano. E quando il calendario dice che alla prima giornata si giocherà contro l’Inter di Mourinho, più di qualcuno aspetta solo il momento giusto per controbattere. A Ventura hanno promesso un difensore, ma Andreolli non arriva, e accanto a Ranocchia esordisce proprio Bonucci. Sarà un uomo chiave di una stagione meravigliosa, assieme a Meggiorini, Alvarez (anche lui retrocesso a Pisa), Almiron, altro capolavoro tattico di Ventura, abilissimo a rilanciare gli eterni incompresi, e Barreto. Le partite chiave sono le due contro Mourinho, pareggi strameritati nell’anno del Triplete nerazzurro, lo zero a zero in casa del Milan dopo un dominio che fa impallidire Leonardo e vergognare pubblicamente Berlusconi, la vittoria per 3 a 1 contro la Juventus di Ferrara, lo spettacolare 4 a 2 al San Nicola contro il Palermo e, nella stagione successiva, un 2 a 2 a Napoli. Quando al 90’ il Bari raggiunge il pareggio, Ventura esclama un’altra delle sue affermazioni più famose dell’avventura barese: «Questo è il calcio». Ma questa volta la frase, che fa il giro dei social network, gli si ritorcerà contro.
Il derby vinto dal Torino, vent’anni dopo l’ultima volta
Il ciclo finisce praticamente lì, a Napoli, non si è mai capito perché. Due settimane più tardi, nell’intervallo di una partita contro il Genoa, lo spogliatoio esploderà e Ventura ne perderà definitivamente il controllo. Nuova caduta. Nuovo inizio. Altra sliding doors. C’è da riportare in serie A il Torino, e restarci. Giocando a calcio. Riesce quasi tutto, non il colpo a sensazione. L’ultima stagione sembra essere quella della consacrazione, della squadra hipster dei Zappacosta, Baselli, Benassi e la definitiva scoperta del valore mondiale di Glik, anche lui fortemente voluto da Ventura già nella sciagurata seconda stagione di Bari. Di una cosa si può stare certi, con Ventura il valore dei giocatori aumenta anche nelle stagioni negative. Lo sa Cairo, lo sa Petrachi, lo sa il popolo granata che il 26 aprile del 2015 è tornato a gustare il sapore di un derby vinto, vent’anni e 17 giorni dopo la doppietta di Rizzitelli. Quel giorno Ventura era a Lecce, in serie C, e non avrebbe mai potuto immaginare una carriera così piena di porte girevoli, di alti e bassi con un’unica missione: mettersi nei panni dei calciatori per poterli stimolare, rafforzarne la determinazione, e aiutarli a costruirsi una mentalità con una costante applicazione sul lavoro. Aggiungere una bella e salutare spruzzata di bel gioco, per fare di Ventura un allenatore e un uomo felice. Che allarga il campo per scoprire nuovi orizzonti.