L’odore del ring

Claressa Shields ha trovato nella boxe quello che la vita gli aveva sottratto: a Rio cerca di confermare l'oro vinto a Londra quattro anni fa.

Claressa Shields si potrebbe riassumere in pochi passaggi, nei momenti che ce la mostrano semplice, priva della complessità di chi ha conosciuto la vita in ogni suo aspetto. Un incontro vinto con un risultato troppo basso, qualche punto assegnato dai giudici invece di quelli che sente di meritare, che è certa di aver ottenuto sul ring. I giornalisti che la incalzano con domande scontate. Claressa non ha mai fatto un 23 in vita sua e questa notizia sembra lacerarla: rimane ferma, le braccia conserte come nel tentativo di chiudersi, serrata al proprio interno. Lo sguardo è imbronciato, cupo e scuro, le restituisce l’allure da ragazza ancora teenager che scompare mentre combatte. È un modo di difendersi, lo mostra spesso quando si sente attaccata, quando le cose sembrano mettersi male. È lo stesso sguardo che ha sul ring mentre viene dichiarata sconfitta durante l’Aiba Women’s World Boxing Championships, torneo che avrebbe voluto vincere. Eliminata dalla britannica Savannah Marshall, fuori dalle prime 8 certe di qualificarsi per Londra 2012.

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Nel 2011 Shields ha sconfitto la campionessa nazionale in carica, Crews Franchon e la campionessa del mondo del 2010, Andrecia Wasson, vincendo la categoria dei pesi medi ai trials statunitensi del 2011. Nell’aprile successivo ha vinto, invece, i Campionati Continentali di Cornwall battendo Mary Spencer, detentrice del titolo mondiale. Il suo score di 25 vittorie consecutive rappresenta un record per il pugilato femminile. Ha soltanto 17 anni ma a Qinhuangdao, in Cina, tutti aspettano Claressa “T-rex”, l’atleta che divora le avversarie facendo del ring il proprio desco. La qualificazione a Londra, che pare compromessa dopo la sconfitta con la Marshall – poi vincitrice del torneo –, la ottiene grazie alla vittoria della britannica nel turno successivo. Claressa è qualificata per Londra, la prima edizione dei Giochi ad ospitare la boxe femminile. La felicità sembra aprirsi su quel sorriso elettrico che sfoggia quando è serena. Una serenità che trasuda fierezza mentre sale sul podio in Gran Bretagna, Claressa è la prima medagliata olimpica della storia nel pugilato femminile.

Più che le sue vittorie, sono le vicende personali ad adornare la storia di questa pugile dei crismi dell’unicità. Claressa è nata in Michigan, a Flint. Flint è una città spogliata dello splendore di un tempo passato, l’utopia di una città operaia che non permea più l’altra “città dei motori”, la seconda Detroit. Famosa per la produzione di auto, tra gli anni ’60 e’70 vive il punto zenitale della crescita demografica; quasi 200.000 abitanti di cui circa 80.000 sono impiegati nelle strutture della General Motors. Oggi è, invece, una cittadina del nord-est anonima e povera, un centro non più in espansione dove sono rimasti soltanto in 5.000 a lavorare per la grande azienda motoristica americana, una cittadina che non vibra più, stretta tra povertà e criminalità elevate, mai completamente ripresasi dall’addio graduale del colosso motoristico. Costantemente considerata come una delle città più violente del paese, si parla di Flint solo per fatti di cronaca o per le acque inquinate al limite del tossico.

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Claressa Shields è l’ultima speranza rimasta a Flint e ai suoi abitanti. Qui è nata e cresciuta, nel Michigan , tra due penisole dove nel 2012 ha finito il liceo. Il padre Bo, l’ha introdotta a quella che era la sua vecchia passione insieme al gusto corrosivo del malto: la boxe. Bo è stato un pugile nei campionati minori, è andato in prigione quando Claressa aveva due anni e fino ai nove non si sono mai visti. Quando viene rilasciato racconta alla primogenita come lo sport che ha sempre amato sia in realtà lo stesso di Laila Ali, la figlia del più grande. La boxe è ancora sport “da uomini” e per gli uomini del nord-est americano è impossibile considerarlo uno sport femminile. Fino agli 11 anni Bo non permette a Claressa di boxare, nonostante il suo sogno di un figlio maschio e pugile. Dalle scene che corredano T-rex, la pellicola dedicata a Claressa e al suo sogno olimpico, c’è una cosa che traspare chiara e nitida, ed è la testardaggine di Shields. Quando dopo la vittoria di Londra 2012 incontra i rappresentati del Team Usa con cui deve discutere il suo futuro, diviso tra passaggio al professionismo o ennesimo ciclo da dilettante, le viene fatto notare che non sta bene riportare nelle interviste quanto le piaccia picchiare la gente. Claressa allora imbraccia il suo miglior approccio difensivo, la sua guardia migliore, rispondendo serafica: «Io sono una pugile». A chi la vuole come Gabrielle Douglas risponde che non è possibile, che ci proverà, che può cercare di mitigare il suo atteggiamento, ma che se vieni da Flint e sei cresciuta senza padre, con una madre alcolista e una sorella problematica, non puoi che voler sfogare la rabbia che provi nei confronti del mondo.

A undici anni Shields inizia a boxare alla Berston Field House di Flint, dove ha incontrato il suo allenatore e padre putativo, Jason Crutchfield. Crutchfield è un ex pugile, un quasi campione con un ottimo record alle spalle che ha lasciato il ring dopo la contemporanea malattia di padre e nonna. Un esaurimento, l’addio al pugilato, le bottiglie di vetro vuote vicino al letto, due matrimoni di cui uno andato male. La stessa nonna che lo ha cresciuto, e a cui deve il suo tempo, gli fa notare che ai bambini sta simpatico, forse un po’ lo rendono anche felice: sembra saperci fare. È così che Jason apre la palestra in cui qualche anno più tardi entrerà «il miglior pugile che abbia mai allenato», il campione che ogni allenatore sogna di avere, è una ragazzina decisa e risoluta. Jason accoglie Claressa in casa sua, la tratta come fosse una figlia mai nata, la allontana dalle distrazioni, dalle paure, dai comportamenti turbati della madre e dai litigi con i fratelli. Crutchfield è padre e manager, per lui ogni passaggio è legato al business, inteso non come semplice forma di guadagno ma come lavoro quotidiano, focalizzato verso il raggiungimento di un obiettivo. Ci sono le rinunce alle feste e agli amori, argomenti che diventano separazioni spesso insormontabili, ma c’è anche l’elemento condiviso da Jason e Claressa: una medaglia olimpica.

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Guardando a fondo nelle pagine della storia di Claressa, ritroviamo i topoi forse stantii del riscatto dalla povertà e dalla violenza, luoghi comuni e storie trite che hanno l’assurda forza di mantenere immutata la loro attrattività. Quando Claressa sale sul ring per difendere i colori statunitensi Jason non può seguirla, non è un tecnico federale – lo diventerà soltanto in seguito alla crescita della propria atleta – e deve stare lontano dalla ragazza che ha cresciuto, come un frutto maturo di cui si tasta la consistenza. Ogni giorno in palestra, lavorare sui jab, sulla guardia, sui pugni che arrivano ancora troppo larghi e permettono alle avversarie di prendere il tempo. Jason non è in Cina quando Claressa esce dal torneo Aiba; non è a bordo ring quando Shields diventa campionessa olimpica. È sugli spalti ad urlare suggerimenti. Il loro legame è così stretto che quando il tecnico urla dalle gradinate di affondare, forse in maniera inconscia, Claressa parte a mulinare le braccia, colpire forte e rapido muovendo il busto e la testa per diventare imprendibile. È come una pioggia di sassi che ti arrivano al volto rendendolo tumido e dolente. Vederla partire forte è un momento mesmerizzante, che brilla d’oro. A Rio, vincendo, Claressa sarebbe il primo pugile a vincere due ori in due edizioni consecutive delle Olimpiadi. Dalla sconfitta con la Marshall, non ha mai più perso un incontro. Ovviamente è la favorita: si aspetta solo che le sue braccia, ora più lunghe rispetto ai tempi del soprannome T-Rex, riprendano a macinare pugni.

 

Nell’immagine in evidenza, Claressa Shields (Harry How/Getty Images)