La strada che sale verso Pu’u Keka’a è considerata una delle più pericolose e spettrali delle Hawaii. Si chiama Kahekili Highway, costeggia le scogliere, è molto stretta e spesso diventa a una sola corsia. Non si contano le curve cieche e ovviamente non c’è il guard rail. Arrivati su, però, c’è un promontorio con vista mozzafiato su un orizzonte davvero infinito in cui gli esseri umani incontrano e rispettano gli dei dell’antichità. La leggenda vuole che a Pu’u Keka’a, nel 1770 circa, re Kihakili, ultimo sovrano dei Maui, conquistò il rispetto dei suoi sudditi tuffandosi nell’oceano Pacifico da 60 piedi, circa 18 metri. Così nacque il Lele Kawa, rito d’iniziazione per i giovani guerrieri chiamati a mostrare il proprio coraggio al popolo. Non tutti sopravvivevano al tremendo impatto con l’acqua. E solo chi riusciva ad alzare pochi schizzi poteva essere considerato degno di future imprese militari.
Da Pu’u Keka’a a Polignano a Mare il passo è più breve di quel che si pensa. E forse non è un caso che sia proprio il paese abituato a «Volare» sulle note del suo Domenico Modugno, a cui è dedicata anche una statua sul lungomare, a ospitare il 28 agosto la quinta tappa delle World Series 2016 di cliff diving, disciplina nota pure come tuffi dalle grandi altezze. L’evoluzione agonistica, ma sempre estrema, del Lele Kawa.
La tappa di Polignano del 2015
Gli uomini saltano da una piattaforma alta 28 metri, le donne da 21. Ci si sfida esattamente come in una tradizionale gara di tuffi in piscina, con coefficienti di difficoltà e giudici ad assegnare i punteggi, ma la differenza è che l’ingresso in acqua viene eseguito con i piedi, possibilmente a 45 gradi e con il collo tirato. Entrare di testa sarebbe estremamente pericoloso. Ventotto metri significa tuffarsi dall’ottavo piano di un palazzo e destreggiarsi in salti mortali e avvitamenti per tre secondi a 85 chilometri all’ora. Di fianco ci sono alcuni sub pronti a intervenire in caso d’emergenza. Ed esiste un segnale universale, «ok» con l’indice a contatto del pollice, da mostrare una volta che si riemerge sani e salvi.
Dal 2009 i tuffi dalle grandi altezze sono uno degli sport sponsorizzati dalla Red Bull, che organizza gare in giro per il mondo associandone le palpitazioni a panorami di rara bellezza, talvolta naturali, altre artificiali. Non c’è località toccata che non abbia alle sue spalle una storia da raccontare. Le fotografie scattate sono tra le più suggestive a tema sportivo e il pubblico risponde sempre numeroso: nel settembre del 2015 a Polignano a Mare c’erano 55 mila spettatori, a La Rochelle in Francia lo scorso luglio 75 mila. Nella tappa barese la piattaforma è posta sulla scogliera di una terrazza privata: per raggiungerla bisogna salire le scale e attraversare un salotto. Ma non è affatto l’unico tocco di romanticismo che si incontra nel cliff diving. C’è la Danimarca con Copenaghen e i suoi tuffi nelle acque gelide del porto dal tetto del Teatro dell’Opera poco distante dalla statua della Sirenetta. C’è l’orgoglio basco con Bilbao e il suo bizzarro Museo Guggenheim sullo sfondo. C’è lo spirito del Lele Kawa più puro che si rinnova dagli strapiombi vulcanici delle Azzorre, nell’oceano Atlantico. E c’è anche il ricordo di uno dei momenti più bui della storia d’Europa. A Mostar, in Bosnia-Erzegovina, ci si lancia dallo Stari Most, ponte del sedicesimo secolo che venne distrutto dai croati la mattina del 9 novembre 1993 e che è stato ricostruito nel 2004 per volontà dell’Unesco. La struttura, che idealmente divideva cristiani e musulmani durante il conflitto balcanico, è considerata adesso patrimonio dell’umanità.
Lo scenario di Mostar
Prima di cominciare questo articolo, ho chiesto suggerimento a qualche amico: «Se ti dico tuffi da 28 metri, a cosa pensi?». Volo, adrenalina, vertigine, pazzia, paura o sicurezza, volontà di superare i propri limiti e senso dell’estremo, le risposte più frequenti. Così, attraverso tre personalità di spicco, ho cercato di capire cosa prova direttamente chi li pratica, perché lo fa e qual è il senso di buttarsi in acqua da quelle altezze.
Il pioniere
Nel 2009 una giornalista di ABC News, Marysol Castro, si è tuffata da una scogliera guidata dai consigli di Orlando Duque e poi ha scritto questo articolo. «Quando sei lì, in piedi, senti le vene che pulsano e il cuore che batte forte. Sei preoccupato e hai paura. Ma una volta in aria tutto accade così in fretta che sembra quasi una cosa automatica. E quando improvvisamente sei in acqua, ti arriva un’incredibile scarica di energia. È una sensazione fantastica. La adoro», le ha confessato Duque, il 41enne colombiano riconosciuto da tutti come l’inventore moderno di questo sport. Anzi, forse anche qualcosa di più: è come se fosse l’erede di re Kihakili, perché vive a Oahu, nell’isola principale delle Hawaii, e ha imparato a rispettare quelli che sono diventati un po’ anche i suoi antenati. Tutte le sensazioni e le emozioni che compongono il cliff diving, insomma, Duque le ha provate per primo. E dire che da bambino quello con l’acqua era un rapporto di amore e odio. «Non mi piaceva fare la doccia ma stavo volentieri in piscina, per cui mia mamma mi ci portava quasi ogni fine settimana. Quando ho iniziato a tuffarmi, però, non ero sicuro di saper nuotare e tornare in superficie dalla parte più profonda della vasca», ha dichiarato in un’intervista a Behindmagazine.com.
Tuffi dalle scogliere dell’Isola del Diavolo (Dean Treml/Red Bull via Getty Images)
È la città di Barcellona ad aver segnato la sua carriera. Nel 1992 si era qualificato per le Olimpiadi di tuffi tradizionali con Cesar Suarez, ma i due vennero lasciati a casa all’ultimo dalla Federazione colombiana. Ventun anni dopo, nel 2013, si è preso la rivincita diventando il primo campione del mondo dall’introduzione dell’high diving nelle manifestazioni ufficiali della Fina, la Federazione internazionale degli sport acquatici. Duque è quindi il veterano delle World Series della Red Bull, da cui è sponsorizzato dal 2000. Tutti lo stimano, lo rispettano e lo prendono ad esempio. Lui però è un tipo un po’ zen: vive calmo, rilassato e «in a good mood». Soprattutto, gareggia ancora per pura passione. «Ogni volta che ho l’occasione di tuffarmi da una scogliera, sento che quello è uno dei momenti più belli ed emozionanti che questo sport può regalare», non smette di ripetere. E grazie ai lunghi capelli raccolti in una coda di cavallo, il suo volo è straordinariamente unico.
Duque alla finale dei Mondiali di Barcellona del 2013
Il cannibale
«Orlando ha dato il nome a questo sport, io ho solo alzato l’asticella della difficoltà». Gary Hunt riconosce sinceramente i meriti del colombiano, ma è anche consapevole di essere il più forte di tutti. Ha vinto cinque World Series in sei anni con 28 successi in 54 tappe ed è campione del mondo in carica. Hunt ha 31 anni, è molto magro e ha un buffo neo in mezzo alla fronte. Annie Clewlow, la sua prima allenatrice alla Southampton Diving Academy, lo prende in giro perché vive un po’ tra le nuvole. «Gli ho scritto un messaggio su Facebook ma non mi ha risposto», dico. «Tipico di Gary, probabilmente avrà perso il pc», mi risponde. Un altro zen. In effetti credo che un briciolo di sana follia sia indispensabile.
Jonathan Paredes si tuffa dal trampolino 27 metri a Sao Miguel, Azzorre (Dean Treml/Red Bull via Getty Images)
«No, non siamo pazzi. Cerchiamo solamente di rompere le barriere della natura». A 28 metri d’altezza la sua apparente ingenuità si trasforma in una sicurezza disarmante: «Non ho mai paura. Cerco di distrarmi e basta». Eppure una volta di paura deve averne avuta parecchia. Era il 2010, si gareggiava proprio a Polignano a Mare e Hunt presentò un nuovo tuffo: quattro salti mortali in avanti con due avvitamenti e mezzo più partenza con rincorsa, un’assoluta prima volta nel cliff diving. In allenamento vinse lo scetticismo dei giudici. In gara, però, entrò “scarso” (cioè senza raggiungere la perfetta verticalità) infortunandosi a testa e torace. Chiuse terzo quella tappa, ma non salì sul podio perché fu subito trasportato in ospedale.
Cinque anni dopo, comunque, quelle stesse barriere della natura sono crollate. Sempre a Polignano, nel settembre 2015, Gary ha riproposto il tuffo con rincorsa ottenendo un ingresso pulito e 168.20 punti. Ha vinto la gara e ha esorcizzato i suoi demoni: «Prima di decidere ho riflettuto una settimana. Ma è stata un scelta giusta, perché mi ha fatto arrivare primo». Con un altro infortunio la sua carriera sarebbe potuta finire. È un rischio che corre ogni cliff diver: per questo sono tutti amici tra loro. Si incoraggiano e sono i primi ad applaudire gli esercizi degli avversari-compagni. Non è retorica, è coscienza del rischio: «Non vogliamo che qualcuno si faccia del male. Potrebbe non saltare mai più. Quindi ci tifiamo a vicenda per caricarci. Ed è una bella sensazione».
Il tuffo con rincorsa a Polignano 2015
L’allievo
«Guarda, ti faccio un esempio ancor più pratico. Ora sono in Germania, due giorni fa ero in Polonia. Sto girando l’Europa per partecipare ad alcuni spettacoli con Kris Kolanus e Rhiannan Iffland, altri due tuffatori del circuito Red Bull. Kolanus sarà un mio avversario a Polignano, ma siamo super amici e ci aiuteremo anche lì». Alessandro De Rose ha 24 anni e al momento è l’unico cliff diver italiano. Ha esordito alle World Series nel 2013 e ai Mondiali nel 2015. Era il più giovane tra gli atleti in gara. Il suo idolo – anzi, il suo «eroe» – è proprio Gary Hunt, con il quale condivide la stessa sensazione di isolamento. «Gary è sicuramente il migliore anche in questo, ma se devo essere sincero tutti noi tuffatori dalle grandi altezze viviamo un po’ nel nostro mondo. Può essere un lato della follia che ci spinge a saltare da 28 metri. Siamo una razza a cui piacciono le sfide personali. Quando salgo sulla piattaforma penso solo che vorrei aumentare ancor di più il coefficiente di difficoltà. È questa la differenza principale dai tuffi tradizionali: lì anche se non hai voglia l’allenatore ti obbliga a tuffarti, qui lo fai perché vuoi sentire l’adrenalina». «È una droga che non fa male», aveva persino dichiarato al sito della Federazione Italiana Nuoto.
Polignano a Mare (Romina Amato/Red Bull via Getty Images)
De Rose ha iniziato a 17 anni in un parco acquatico di Roma «per soldi, per aiutare mia mamma». Ma la prematura morte del padre l’ha segnato molto più dei 14 tatuaggi che gli coprono il corpo e che a lui sono spesso dedicati. Perché probabilmente c’è più di un collegamento, magari ancora latente, tra il lutto, l’estraniamento e i suoi tuffi estremi: «Credo di sì. Ultimamente mi sto facendo un po’ di esami di coscienza e mi chiedo “Perché?”. All’inizio era quasi un modo per attirare attenzione, per urlare alla mia famiglia “Io esisto, sto soffrendo, datemi una mano”. Ora ho stimoli e voglio salire sul podio». In un’intervista al sito ufficiale della Red Bull una volta ha detto: «Il cliff diving è la sensazione che più di tutte si avvicina al volo». L’ho chiesto a Hunt e mi ha risposto differenziando un po’: «È una sorta di [volo]. Ma subito dopo c’è l’impatto con l’acqua e non è così piacevole». De Rose, però, è molto più romantico: «Ti dà un sentimento di libertà unico. Sì, in quei tre secondi stai davvero volando. E poi l’ingresso fa più o meno male in base alla temperatura del mare e alla sua salinità. A Copenaghen e La Rochelle fa freddo ed è duro. Ma a Polignano, dico davvero, c’è l’acqua più morbida del mondo».