Una delle prerogative di Di María è la sua capacità di calarsi in abiti tattici molto diversi tra loro. Alla prima di Champions contro l’Arsenal, Emery ha sperimentato ancora, utilizzando l’argentino quasi come seconda punta o, comunque, come unico raccordo tra Cavani e un insolito quadrilatero di centrocampo composto da Verratti-Krychowiach-Matuidi-Rabiot. Ne è venuta fuori una gara da 4 occasioni create e 3 conclusioni che lo ha visto agire sulla parte destra del campo, per poi tagliare il campo verso il centro e liberare lo spazio per gli inserimenti delle mezzali o di Aurier (l’autore per il fulmineo vantaggio di Cavani).
Una lunga serie di invenzioni tattiche che parte nel 2007, quando Di María sbarca al Benfica per sostituire il partente Simao Sabrosa, portandosi dietro la fama di aletta fumosa tutta dribbling, estro e sinistro, destinata a soccombere alla fisicità del calcio europeo. E, in effetti, le prime due stagioni (5 reti in 79 presenze) sembrano confermare l’assunto: da trequartista è pressoché inutilizzabile (non ha ancora i tempi della giocata di prima in verticale) e, sugli esterni, le indubbie doti nell’uno contro uno vengono continuamente mortificate da una fase passiva non all’altezza di quella attiva. Non è un caso, quindi, che lo zenit di quel biennio sia rappresentato dalla vaselina (l’autentica specialità della casa) con cui consegna il titolo olimpico all’Argentina di Messi e Batista.
Nel 2008, alle Olimpiadi di Pechino
Una prima precisazione del ruolo arriva nell’estate del 2009, quando al da Luz sbarca Jorge Jesus, allenatore di tipo liberista. E, quindi, dentro contemporaneamente Ramires, Di Maria, Cardoso e Saviola, con Javi Garcia a fare da frangiflutti, David Luiz al centro della difesa, Coentrao e Maxi Pereira come esterni bassi e via andare di 4-1-3-2. L’esperimento più interessante riguarda proprio il ragazzo di Rosario: Jesus capisce che il talento non si può imbrigliare e gli permette di sfogare la giovanile esuberanza trovando di volta in volta la posizione che più gli aggrada, meglio se tagliando da un estremo all’altro del campo sfruttando lo spazio alle spalle delle due punte. Agire in relazione a quanto ti propone la difesa e poi spazio all’istinto puro e semplice. L’intuizione è talmente buona che, al termine di una stagione da 45 presenze e 10 gol, arriva il Real. E Jesus acconsente benedicente: «Non è ancora il migliore del mondo perché ci sono Messi e Cristiano Ronaldo. Ma è letale nell’uno contro uno, forte in zona gol, fortissimo quando si tratta di servire assist. E può ancora migliorare, ha appena 22 anni e il futuro gli appartiene. I tifosi del Real lo ameranno. È un genio, non esiste nessun giocatore come lui nel suo ruolo».
Già, il ruolo. Mourinho è molto meno democratico del predecessore da questo punto di vista. Nel suo 4-2-3-1 il talento deve avere un’utilità e una sua precisa collocazione in campo. L’unica deroga ammessa è per Cristiano Ronaldo libero di andare dove meglio crede. Per Di María, invece, si torna alle origini: esterno alto e, preferibilmente, a sinistra, per evitare di pestarsi i piedi con Özil che tende spesso ad agire sul centro destra. Il dettaglio che, di fatto, consegna a Mou il suo primo titulo madrileno: il gol decisivo di CR7 nella finale di Copa del Rey al Mestalla di Valencia contro l’odiato Barcellona, nasce proprio da un’intuizione del Fideo sulla fascia di riferimento, con Dani Alves tagliato fuori dalla triangolazione con Marcelo.
La giocata decisiva nella finale di Coppa del Re del 2011
Con e grazie a Mourinho, Di María diventa un giocatore in grado di fare la differenza in entrambe le fasi. Nel 2012/2013, l’ultima stagione di Mou al Real, alla consueta produzione offensiva (7 gol, 6 assist, 39 key passes solo nella Liga), Ángel coniuga una rinnovata attenzione sulle transizioni avversarie (a fine campionato saranno 25 gli intercetti e 4 i recuperi difensivi decisivi) e un’insolita durezza nei contrasti (48% di tackles andati a buon fine). Qualcosa nel rapporto tra i due, però, si rompe a gennaio, nell’intervallo di una partita poi pareggiata con l’Osasuna: «Quando guadagnavi pochi soldi correvi come un matto, ma da quando hai rinnovato il contratto (l’estate precedente, ndr) non sei più lo stesso». Questa la frase che il tecnico avrebbe rivolto al suo giocatore, stando all’indiscrezione ripresa dal quotidiano Marca. E che potrebbe portare alla cessione dell’argentino, se Florentino Pérez a fine anno non decidesse di congedare Mourinho e puntare su Ancelotti. Il quale azzera quasi tutto del vecchio progetto tecnico-tattico, ma fa suo parte del lavoro del predecessore e lo implementa con quegli stessi principi che al Milan gli permisero, con le dovute differenze, di trasformare Andrea Pirlo da trequartista di belle speranze nel giocatore chiave dei successi internazionali del calcio italiano.
E, così come accaduto con Pirlo, anche con il Di María reinventato mezzala sono iniziali levate di scudi per quello che sembra un autentico suicidio tattico: sembra, infatti, impossibile che un giocatore del genere possa fare il terzo di sinistra in un centrocampo chiamato a supportare una BBC che non ha nel sacrificio in non possesso la caratteristica migliore (eccezion fatta per Bale) e con un Marcelo che, da quella parte, è terzino soltanto nominalmente. Eppure la Champions League 2013/2014 del Fideo è qualcosa che passa una volta ogni tanto anche dalle parti del Bernabéu. Bale, Ronaldo e Benzema ci mettono gli effetti speciali, Di María un connubio mostruoso di qualità e quantità: 3 gol, 5 assist, 14 passaggi chiave e almeno un’azione difensiva decisiva a partita. Non è raro vederlo, nella stessa azione, prima scalare a copertura preventiva delle avanzate di Marcelo e, poi, attaccare lo spazio alle spalle di CR7. È lui il vero ago della bilancia di una formazione in grado di passare dal 4-3-3 al 4-4-2 a seconda dei singoli momenti della partita, in un cubo di Rubik che si è dimostrato di difficile soluzione anche per uno come Guardiola. Nella semifinale di ritorno all’Allianz Arena, il Bayern crolla sotto i colpi del contropiede avversario proprio perché Pep non ha nessuno in grado di opporre qualcosa di credibile al numero 22, autore della solita partita totale sui due lati del campo. Fino alla finale contro l’Atlético in cui dà il la al gol di Bale con la giocata della vita, che vale la Décima del Real.
Il gol di Bale, nella finale di Champions del 2014, propiziato da una gran giocata di Di María
Il Di María che vola a Manchester da Van Gaal per 78,5 milioni di euro è uno dei top 5 al mondo. Tanto più che anche in Nazionale, agli ultimi Mondiali, si è visto riservare lo trattamento toccato a Messi: come il 10 del Barça, infatti, anche lui ha avuto il permesso dal ct Sabella di cercarsi da solo la posizione in campo e, da lì, agire come meglio crede. E non è un caso che l’Argentina perda la finale con la Germania ancor prima di scendere in campo. Con Di María infortunatosi nella semifinale con l’Olanda e con Löw che ha in parte fotocopiato i giochi di quel Guardiola mandato al manicomio dal Fideo, la Selección si vede privata dell’elemento che avrebbe potuto sparigliare le carte in tavola. Van Gaal, invece, la legge in modo diverso. Anzi, nel modo sbagliato. Perché reinterpreta la sopravvenuta duttilità tattica come la possibilità che Di María possa fare non solo l’interno di centrocampo ma anche l’esterno a tutta fascia, lasciando a Rooney il ruolo di gestire i flussi di gioco per vie centrali.
Il risultato è una stagione molto al di sotto delle aspettative. Non tanto dal punto di vista statistico (10 assist e 41 occasioni da rete create in 27 presenze) quanto da quello della monodimensionalità della prestazione: confinato nuovamente sull’out sinistro (da lì arriverà oltre il 37% della sua produzione offensiva rispetto all’abbondante 52% per vie centrali della stagione precedente) non riuscirà mai a declinare la sufficienza in entrambe le fasi. Quando si sacrifica in fase di non possesso (17 intercetti, 4 salvataggi e poco più del 34% di contrasti vinti) latita offensivamente, quando incide negli ultimi 30 metri lascia buchi spaventosi nei precedenti 70 in cui gli avversari si infilano a piacimento. Le sue migliori esibizioni, comunque, sono quelle condite dai gol (pochini: appena 3 in Premier) nati dalle amate letture anticipate degli spazi concessi dalle difese avversarie, convergendo da sinistra verso il centro. La sontuosa (e consueta) vaselina con cui giustizia il Leicester è l’unico sprazzo del Di María che avrebbero voluto vedere a Old Trafford.
Uno dei pochi gol in Premier, al Leicester
Con Van Gaal la frattura tecnica è insanabile e i 63 milioni di euro che arrivano da Parigi sono salvifici. Blanc avrebbe già i tre di centrocampo (Matuidi, Verratti e Thiago Motta, più Rabiot come primo cambio) a copertura del tridente offensivo, ma, saggiamente, decide di optare per il liberismo di Jesus e con Di María fa l’unica cosa che si può fare: gli da ampia libertà d’azione e di movimento, lasciandolo libero di agire nelle sue mansioni da “tuttocampista”. C’è una partita di dicembre contro il Lione in cui, oltre a servire tre assist (arrivando a quota 10 in 11 partite), sembra essere praticamente ovunque sul campo: partito come esterno alto di sinistra nei tre d’attacco, arretra a cucire il gioco con i centrocampisti, scambia spesso la sua posizione con l’omologo sul lato opposto Cavani, alterna l’attacco alla profondità alla partenza in percussione da lontano, finendo come trequartista alle spalle delle due punte. E Fournier capisce quel che aveva provato Guardiola due stagioni prima: i suoi non lo prendono mai.
Un po’ di bellezza del Fideo, portata in Francia
Condizione peraltro condivisa con le altre 19 squadre della Ligue 1, per le quali Di Maria è una sorta di meteorite che impatta troppo forte: 10 gol, 19 assist e 98 occasioni da rete create in 29 apparizioni (tacendo dell’81 % di pass accuracy), con il talento al servizio dell’ubiquità. Non sembra esistere zona del campo dalla quale El Fideo non riesca a creare qualcosa per se o per gli altri:
E se il campionato sembra essere un banco di prova relativo, l’Europa che conta vede il ritorno in grande stile di chi l’aveva dominata. Il Di María di Champions League è un giocatore che Blanc preferisce utilizzare nell’ultimo terzo di campo (42.9% partendo dall’esterno sinistro, 31.4 negli ultimi 30 metri centrali) per sfruttarne le abilità in dribbling (54 riusciti su 81 tentati in 10 partite) e l’inserimento dal lato debole nello spazio creato dal movimento di Ibrahimovic e Cavani. Le 35 occasioni create (media di 3.5 a gara), il 59.4% di precisione nei passaggi in verticale e la capacità di inserirsi nelle linee di passaggio avversarie (8 intercetti e 1 recupero decisivo) raccontano di un giocatore in grado di fare la differenza comunque e in qualsiasi contesto.
L’arrivo di Unai Emery ha portato profondi cambiamenti all’interno dell’impiantistica di gioco del PSG, meno schiava dell’improvvisazione e maggiormente votata al raggiungimento del risultato attraverso l’organizzazione e il recepimento di principi di gioco codificati. Non sorprende, quindi, che nelle prime quattro giornate di campionato, i parigini abbiano faticato molto di più rispetto al recente passato (2 vittorie e una sconfitta prima della sosta, pari interno con il St.Etienne venerdì scorso): per assimilare i meccanismi e il modus operandi del nuovo allenatore serve tempo, anche se il punto di partenza è comunque il 4-3-3 e lo stesso Di María sembra continuare a godere della stessa plenipotenziarità della stagione precedente.
Questo, nonostante qualcuno avesse ipotizzato per lui la stessa sorte toccata a Konoplyanka, l’elemento dal maggior tasso tecnico a disposizione di Emery a Siviglia e finito progressivamente ai margini del progetto tecnico, a causa della sua scarsa capacità di mettere il proprio talento al servizio dell’economia di squadra. Differentemente dal figlio di Rosario che, nel tempo, è diventato il calciatore “associativo” per eccellenza e, quindi, uno dei pochi cui il nuovo allenatore non potrebbe mai rinunciare (e i 213 minuti giocati sui 360 a disposizione costituiscono un robusto indizio in tal senso). Nella migliore esibizione sua e della squadra, il 3-0 interno del 21 agosto contro il Metz, Di Maria è partito esterno di sinistra nel tridente completato da Lucas Moura e Cavani, sostenuto a centrocampo da Rabiot, Thiago Motta e Pastore. Proprio l’interscambio continuo tra i due argentini è stata la chiave di volta della partita: in due hanno coperto praticamente ogni punto della trequarti offensiva, evitando di dare punti di riferimento alla difesa avversaria ed eludendo costantemente la prima linea di pressing.
Delle 12 occasioni da gol fin qui create dal Fideo (2 assist e 10 key passes) ben 7 sono arrivate in questa partita, caratterizzata, inoltre, dal 78% di pass accuracy e dall’alto numero di tiri in porta (6). Il Di Maria di Emery, quindi, sembra aver bisogno di qualcuno dal tasso tecnico quanto meno comparabile con cui dialogare nella traccia interna per poter maggiormente incidere negli ultimi 20 metri.