«Non ho un modulo predefinito. Sono preparato su tutto, ma non credo esista un modulo che ti fa vincere o perdere le partite. Il modulo ideale è quello che meglio si adatta alle caratteristiche della squadra. Nella mia carriera ha giocato con tutti i moduli, tranne quello che prevede la difesa a tre. Ma credo che anche voi, dopo quattro-cinque anni, abbiate voglia di qualcosa di diverso». Basta questo passaggio della prima conferenza stampa da allenatore del Torino di Sinisa Mihajlovic per capire quanto siano cambiati in estate i granata: dal mercato (sono arrivati ben 13 volti nuovi: Hart, Ajeti, Barreca, Rossettini, Castán, De Silvestri, Valdifiori, Lukic, Boyé, Gustafson, Aramu, Iago Falque e Ljajic, a fronte delle partenze di Quagliarella, Glik, Maksimovic e Bruno Peres) ai risultati di questo primo scorcio di stagione. Il Torino versione 2016/2017 è una squadra totalmente nuova, diversa da quella di Ventura per costruzione di gioco, modo di stare in campo, approccio alla gara e interpretazione delle singole fasi.
I risultati, per ora, danno ragione al nuovo corso voluto da Urbano Cairo: il Torino è settimo in classifica con 11 punti (frutto di tre vittorie, due pareggi e altrettante sconfitte), segna tanto (quarto attacco del campionato con 13 gol: una cifra che non si raggiungeva dai tempi di Pulici-Graziani), anche se subisce ancora un po’ troppo (otto reti incassate in sette partite) ed è, con il Sassuolo di Di Francesco, la squadra che sta offrendo il calcio più piacevole in relazione alla qualità della rosa a disposizione.
Ma da dove nasce questa nuova primavera granata? Innanzitutto dalla chiarezza su sistema e identità di gioco. Quando Mihajlovic diceva che ci sarebbe stato un modulo di base dal quale ricavare, volta per volta, le alternative più adatte ai vari momenti partita in corso, aveva in mente proprio il Torino di queste prime sette giornate: una squadra pensata e costruita per un 4-3-3 molto offensivo (e, potenzialmente, per un 4-2-4 da utilizzare in caso di rimonte disperate), pronto a trasformarsi in un 4-4-2 in fase di non possesso, con uno dei due esterni alti che, alternativamente, scala sulla linea dei centrocampisti. Ruoli e movimenti sono quelli codificati di un sistema di gioco che sta prendendo piede anche in Serie A: esterni offensivi che sfruttano il movimento della punta centrale per tagliare sulla traccia interna, terzini molto alti che arrivano facilmente sul fondo sfruttando le sovrapposizioni, triangolo di centrocampo in cui è il regista/vertice basso a gestire tempi e flussi di manovra e con mezzali di quantità e qualità pronte a inserirsi dal lato debole, baricentro molto alto alla ricerca del recupero palla già nella trequarti avversaria per ridurre al minimo il rischio di transizioni in contropiede. Tutto apparso molto evidente già dalla seconda giornata e dal 5-1 rifilato al malcapitato Bologna di Donadoni: 20 conclusioni, 15 occasioni da rete create, 81% di pass accuracy e un dominio totale sui due lati del campo.
Torino-Bologna 5-1, seconda giornata di campionato
Da questo punto di vista, l’ex tecnico del Milan non sembrerebbe aver inventato nulla di nuovo. In realtà qualche accorgimento sui generis c’è, dettato soprattutto dalla caratteristiche e dal rendimento sin qui avuto dai singoli giocatori. Partiamo dal presupposto che il Torino è l’ultima squadra del campionato per possesso palla (poco più del 40% a fronte del 57 del Napoli primo nella speciale classifica) con il 77% di accuracy e 1931 passaggi completati. Un dato che, incrociato con quello relativo ai cartellini (15 gialli e due rossi – rimediati da Vives e Acquah nella trasferta di Pescara – che fanno dei granata la nona squadra più sanzionata) e ai falli commessi (circa 200: di più solo il Genoa), spiega come il Torino sia una squadra che preferisca tenere poco il pallone tra i piedi, privilegiando un gioco fatto di recupero palla e veloci transizioni con pochi tocchi in verticale (il 68.7% del totale) rispetto ad uno sterile possesso orizzontale. Qualcosa che non si vedeva dal 2013/2014, anno di grazia di Cerci e Immobile, dove la scelta di farsi attaccare e per poi recuperare la sfera e aggredire lo spazio in verticale era stata dettata più dalle caratteristiche dei due terminali offensivi che non da una precisa identità di squadra.
L’uomo chiave del momento è Iago Falque: non tanto e non solo per l’atteso contributo offensivo (4 gol – con una shot accuracy dell’89% – 1 assist e 10 key passes) quanto, piuttosto, per l’essere diventato il vero e proprio regista offensivo della squadra, supplendo alle carenze in fase di costruzione di un Valdifiori ancora alla ricerca di se stesso. Si prenda ad esempio il 5-1 contro il Bologna alla seconda giornata, una delle poche partite in cui l’ex canterano del Barcellona non si è segnalato per una rete o un assist. In quell’occasione Falque si è dimostrato autentico “uomo ovunque” del Toro, toccando un’infinità di palloni (pass accuracy del 92%), dettando perfettamente i ritmi di gioco ed evitando di dare punti di riferimento alla difesa avversaria che, letteralmente, non sapeva dove e con chi limitarne il raggio d’azione.
Non si è, però, trattato di un unicum. La rinnovata pluridimensionalità tattica dello spagnolo gli ha permesso di godere (previa autorizzazione di Mihajlovic, ovviamente) di ampia libertà di movimento alla ricerca della miglior posizione in campo, in relazione alle caratteristiche dell’avversario di giornata. Non è stato raro, infatti, vedere Falque agire anche da trequartista piuttosto che da esterno vero e proprio, soprattutto nelle partite in cui l’allenatore ha deciso di impiegare Boyé (1 assist e 7 key passes fin qui), che ha dimostrato di trovarsi molto più a suo agio quando ha giocato vicino alla prima punta di riferimento. Nel 3-1 casalingo contro la Roma, la gara che meglio rappresenta le qualità del Torino 2016/2017, sfruttando la contemporanea presenza di Belotti e del giovane argentino, ha svariato su tutta la trequarti offensiva, trovando sempre gli spazi giusti e andando in rete per ben due volte sfruttando la sua imprevedibilità nei movimenti con e senza palla.
Come se non bastasse, anche in fase di non possesso la crescita è stata esponenziale. Il gol contro la Fiorentina, nato da un suo recupero palla su Salcedo, rappresenta lo zenit di una prima parte di stagione contraddistinta anche dalle due azioni difensive di media a partita (6 intercetti e altrettanti recuperi) e dal grande impegno in ripiegamento, andando spesso in aiuto del terzino che agisce dal suo lato, evitando che quest’ultimo vada in inferiorità numerica sulle transizioni avversarie e raddoppiando costantemente l’esterno offensivo degli altri quando attacca l’ultimo terzo di campo. L’azione di Iago Falque, però, non avrebbe la stessa efficacia se non fosse adeguatamente supportata dal grande lavoro sui due lati del campo degli interni di centrocampo. La già citata gara contro la Fiorentina è paradigmatica dell’importanza dell’apporto di Benassi ed Acquah, centrocampisti dalla caratteristiche profondamente diverse ma che, proprio per questo, si completano alla perfezione e riescono a coprire ampie fette di campo, tanto in ampiezza quanto in lunghezza.
Anche in questo caso il discorso è molto più semplice di quel che si possa pensare: Benassi è il giocatore chiamato all’inserimento senza palla e alla partecipazione attiva nell’ultima costruzione (1 assist e 4 key passes fatti registrare fin qui, con l’87% di precisione nei passaggi), Acquah il classico elemento di rottura delle trame avversarie, abile a inserirsi sulle linee di passaggio (11 intercetti fin qui completati) ed energico il giusto quando si tratta di affondare il tackle, con un accettabile rapporto di 11 falli fischiatigli contro a fronte dei 18 contrasti ad oggi effettuati. La rete del 2-1 ai viola è emblematica della sincronia di movimenti tra i due: è proprio Acquah a dare il via all’azione sul lato destro della trequarti campo, salvo poi arretrare di qualche metro, pronto a dare copertura a Benassi che, nel frattempo, aveva già cominciato il movimento di taglio alle spalle della linea difensiva di Paulo Sousa partendo dal lato debole. Al resto pensano la sensibilità di tocco di Falque e la freddezza del giovane capitano granata.
Il gol di Benassi contro la Fiorentina
Non deve sorprendere, quindi, che siano loro i due di cui Mihajlovic non potrebbe fare a meno a metà campo. Anche in virtù della strana stagione fin qui vissuta da Daniele Baselli: uno che all’Atalanta sembrava sul punto di esplodere definitivamente da un momento all’atro e che, invece, in granata alterna prestazioni ottime come quella contro il Milan ad altre sconcertanti come a Pescara. E il fatto che l’allenatore continui a pungolarlo anche a mezzo stampa («Deve tirare fuori le palle. È l’unico bergamasco che conosco che non ha cattiveria. Ha grandi qualità ma non ha il fuoco negli occhi, sono tre mesi che glielo dico»), fa presumere che, persistendo le difficoltà di Valdifiori, l’intenzione sia quella di costruire una mediana Benassi-Baselli-Acquah che coniughi quantità e qualità, lasciando a Iago Falque il compito di creare gioco partendo dall’esterno per poi accentrarsi sul piede forte. Il tutto in attesa del ritorno a pieno regime di Ljajic (sebbene Martinez e il già citato Boyé non lo stiano facendo rimpiangere), che di Falque è l’omologo sulla fascia opposta e che potrebbe svolgere lo stesso tipo di lavoro partendo dall’out di sinistra, arricchendo le soluzioni offensive a disposizione dei granata.
Discorso a parte merita Andrea Belotti, alle prese con la stagione che, con tutta probabilità, lo consacrerà come futuro centravanti di riferimento del calcio italiano. E non solo perché ha realizzato quasi il 40% dei gol della squadra (5 su 13, più due rigori sbagliati e un palo, a Pescara, che vibra ancora: fino alla gara contro la Fiorentina viaggiava alla media di una rete ogni 58 minuti), ma anche per la sua crescita dal punto di vista del Q.I. calcistico e dell’applicazione tattica. Belotti sa rendersi utile anche quando non timbra il cartellino in prima persona; andando al di là del dato che parla di un assist e 10 key passes nelle cinque partite giocate, quel che è subito saltato all’occhio fin dalle prime partite, è stata la capacità dell’ex Palermo di leggere i flussi delle gare, trovando sempre il modo di rendersi utile in ogni situazione. Nell’ultima partita con la Fiorentina, ad esempio, Belotti è stato uno dei giocatori che ha toccato più palloni in assoluto (ben 45, compresi tre tiri e tre occasioni create), giocando di sponda, aprendo spazi importanti per i compagni e tenendo impegnato quasi da solo l’intera difesa viola nei minuti in cui i granata si sono trovati a difendere un vantaggio risicato dopo la rete di Babacar. La heatmap del Gallo dimostra come si sia al cospetto di un attaccante completo in grado di fare la differenza in quasi tutte le zone del campo, anche in fase di non possesso.
C’è poi un’altra statistica che la dice lunga sull’importanza del numero 9. Con lui in campo il Torino ha segnato 12 gol in 5 partite, per la strabiliante media di una rete ogni 32 minuti nei 384 fin qui disputati in campionato da Belotti. Di contro c’è il lato oscuro di quella che è una vera e propria dipendenza: senza di lui i granata hanno segnato una sola volta in 180 minuti, con la punizione di Iago Falque nella sconfitta (2-1) di Bergamo contro l’Atalanta. Presenza in area, attacco della profondità, grande capacità di tener su la squadra, intelligenza superiore nel leggere i movimenti della difesa avversaria e creare i presupposti dell’azione da gol per sé e per i compagni. Un attaccante a 360 gradi, con tutte le sue qualità che si sono sublimate nella rete realizzata contro la Roma: attacco dello spazio e difesa del pallone contro Fazio sul lancio proveniente dalle retrovie, sponda a favorire il taglio da sinistra vero il centro di Falque, intuizione dello sviluppo dell’azione dolo la respinta del portiere, senso del gol e tempismo fusi nello stacco di testa a freddare Szczesny.
Il gol di Belotti contro la Roma
Detto di una fase offensiva fluida come poche volte nella storia recente torinista (86 le occasioni da rete create in 630 minuti di gioco più il 48% di shot accuracy), le perplessità giungono allorquando si passa all’analisi del modus operandi difensivo. L’esordio stagionale contro il Milan a San Siro, aveva raccontato di un Torino dal baricentro altissimo, con i due terzini sulla linea dei centrocampisti e i difensori centrali lasciati spesso in campo aperto a fronteggiare le transizioni del tridente rossonero. Non devono, quindi, stupire i tre gol concessi in poco più di un’ora di gioco ai padroni di casa, figli di un atteggiamento troppo aggressivo e teso a un recupero palla nella metà campo avversaria.
Da quella prima negativa esperienza, Mihajlovic ha preso buoni appunti e, nelle uscite successive, il Torino si è dimostrato meno scriteriato in fase di non possesso, optando per un pressing meno furioso e maggiormente selettivo, soprattutto nella scelta dell’uomo da attaccare. Nonostante questo necessario accorgimento, però, i granata continuano ad essere una squadra vulnerabile una volta saltata la prima linea di pressione e che soffre tremendamente le contro-transizioni susseguenti a un pallone perso sulla trequarti offensiva (come nel caso del gol del momentaneo 1-1 del Bologna a opera di Taider e susseguente ad un errore di Baselli). Ulteriore difficoltà, poi, sono arrivate dal passaggio dalla difesa a 3 a quella a 4 e, soprattutto, dalla mancanza di un secondo centrale affidabile da affiancare all’ottimo Castan dopo la partenza di Maksimovic nell’ultimo giorno di mercato. Accanto all’ex romanista si sono avvicendati i vari Moretti, Rossettini e Bovo senza che nessuno riuscisse a garantire un livello di copertura accettabile: e non è un caso che sette delle otto reti subite dal Toro siano state realizzate all’interno dell’area di rigore. Nemmeno gli esterni bassi sono, però, esenti da colpe: i granata patiscono le squadre che tendono a cambiare spesso il fronte del gioco e la stessa rete di Babacar nell’ultima partita è arrivata a seguito di un cross di Milic, con Zappacosta (comunque in netta ripresa rispetto alla stagione precedente) in ritardo nella chiusura.
Altro problema, questa volta di ordine psicologico più che tecnico, è costituito dall’approccio alle partite con le cosiddette piccole. Se da un lato, infatti, il Torino sembra essere in grado di giocarsela con le squadre di rango superiore, dall’altro è andato notevolmente in difficoltà quando si è trattato di fare la gara contro squadre che gli lasciavano scientemente il pallino del gioco. La sconfitta di Bergamo e il deludente 0-0 con l’Empoli (la trasferta di Pescara va contestualizzata tenendo conto delle due espulsioni e del palo finale di Belotti), nascono proprio dall’attuale idiosincrasia di imporsi con trame prolungate e ragionate piuttosto che con transizioni veloci e fulminee dopo il recupero palla.
Nulla, comunque, su cui Mihajlovic non riesca a lavorare nelle prossime settimane. Se c’è una cosa che il serbo ha già dimostrato in questi primi mesi granata è quella di essere l’uomo giusto, al posto giusto, nel momento giusto. Quello, cioè, in cui deve finalmente concretizzarsi il passaggio da squadra di belle speranze da una stagione e via a solida realtà che possa puntare stabilmente alle posizioni che contano anno dopo anno. E le dichiarazioni post Roma che parlano, senza mezzi termini, di obiettivo Europa League costituiscono un ulteriore e robusto indizio in tal senso.