La Galleria Snaphotograph di Firenze ha presentato il 6 ottobre la mostra intitolata Muhammad Ali: impossible is nothing, curata dal fotografo Luca Simonetti e in programma fino al 22 novembre. Il progetto riunisce 20 opere, alcune inedite in Italia, di 12 fotografi diversi: tra cui Carl Fisher, Brian Hamill, Annie Leibovitz, Neil Leifer, Terry O’Neill, Marvin Newman, Gordon Parks e Charles Trainor. Gli scatti sono stati realizzati tra i primi anni Sessanta e la fine degli anni Settanta e ritraggono il pugile nei due decenni di carriera sportiva e durante la vita privata.
Nato in Kentucky nel 1942, Cassius Clay ha vissuto nei primi anni di vita la segregazione razziale e le discriminazioni cui erano sottoposti gli afroamericani. Con l’inizio dei moti di protesta, Clay ha preferito l’attivismo di Malcom X alla forma pacifista di Martin Luther King, abbracciando un’idea che mescolava le rivendicazioni di diritti, la religione islamica e il comunismo. Ha iniziato a fare pugilato spinto da un poliziotto che gestiva una palestra e da dilettante ha vinto l’oro alle Olimpiadi di Roma 1960. È stato campione mondiale dei pesi massimi dal 1964 al 1967, dal 1974 al 1978 e per un’ultima breve parentesi nel 1978. Su 61 incontri disputati, ne ha vinti 56; di questi, 37 per ko, il primo contro Sonny Liston nel 1964.
La sua frase «Vola come una farfalla e pungi come un’ape» sottolineava la straordinaria agilità nelle gambe che gli consentiva di abbinare a una tecnica sopraffina movimenti leggeri e colpi efficaci. Clay si convertì all’islam all’indomani del successo contro Liston, cambiando nome in Muhammad Ali, in onore di Wallace D. Fard Muhammad di Nation of Islam, movimento afroamericano islamico da lui fondato. Ha difeso il titolo per otto volte, ma il rifiuto di combattere in Vietnam nel 1967 ne interruppe la carriera. È diventata celebre la motivazione che ha accompagnato la decisione: «I miei nemici sono gli uomini bianchi, non i vietcong. La mia coscienza non mi lascerà sparare a un mio fratello, o a persone dalla pelle più scura, ai poveri, agli affamati, per la grande e potente America. E sparare per cosa? I vietcong non mi hanno mai chiamato negro».
La frase gli costò il titolo mondiale e una condanna a cinque anni di prigione, poi commutata con il rilascio e delle forti limitazioni sulla libertà personale e sportiva. Soltanto nel 1974 gli è stato permesso di tornare a fare pugilato: nel periodo di assenza dal ring, Ali ha partecipato a numerose manifestazioni e iniziative pubbliche in favore dei diritti degli afroamericani e contro la guerra del Vietnam. Il suo impegno politico è continuato anche dopo il ritiro. Le ultime sue parole hanno riguardato le posizioni contro l’immigrazione dei musulmani negli Stati Uniti da parte di Donald Trump: «Io sono un musulmano e non c’è niente di islamico nell’uccidere persone innocenti a Parigi, San Bernardino, o in qualsiasi altra parte del mondo. I veri musulmani sanno che la violenza spietata dei cosiddetti jihadisti va contro gli stessi principi della nostra religione. Credo che i nostri leader politici debbano usare la loro posizione per sensibilizzare alla comprensione dell’Islam e chiarire che questi assassini hanno influenzato negativamente le opinioni dei cittadini su ciò che l’islam è veramente».