C’è una cosa che mi è rimasta impressa, più di tutte, del celebrato gol di Agüero contro il Qpr, quello della vittoria della Premier League nel 2012. Il suono della rete. Sembra il clic di una macchina fotografica. Non capita molto spesso che lo si avverta. Il suono di un canestro, invece, ha una sua precisa identità. È percepibile, è riconoscibile, anche se cambia spesso, a seconda che si tratti di una schiacciata, o di tiro di tabella, o dall’arco. Se il pallone scivola giù per la retina, senza interferenze del ferro, ha un suono che fa più o meno così: rip. Fa così da quando Bill Schonely, nel 1971, saltò in piedi all’urlo di «RIP CITY!!!», perché Jim Barnett dei Trail Blazers aveva appena infilato da lontano – otto metri, dicono le leggende – un supercanestro contro i i Lakers dei giganti Wilt Chamberlain e Jerry West.
Richard Hamilton non ha mai giocato a Rip City, alias Portland, in carriera: c’è stata prima Washington, poi Detroit, e infine Chicago. Ma lui è Rip, perché suo padre è Rip: lo chiamavano così, buffamente, perché da piccolo strappava i pannolini (rip-the-diapers). Ma a quel nomignolo Hamilton ha dato un significato diverso. Retina dopo retina, quella parola evocava il suono del canestro. Campione Ncaa con UConn nel 1999 e campione Nba con Detroit nel 2004, tre volte All-Star, Hamilton è stato un gigante del basket americano. Le sue statistiche dicono che per quattro stagioni di fila, dal 2003 al 2006, Rip non è mai andato sotto i 20 punti a partita nei playoff.
Rip Hamilton è arrivato a Milano per la Nba Digital Exhibition, allestita all’interno del Samsung District in via Mike Bongiorno a Milano. La mostra, curata da Massimiliano Finazzer Flory, è su ingresso libero e rimarrà aperta fino al 4 dicembre (tutti i giorni dalle 12 alle 20). Un’esperienza coinvolgente nata da una scrupolosissima ricerca nell’archivio Nba, all’interno del quartier generale di Secaucus: lo spettatore potrà immergersi con la realtà virtuale offerta dai dispositivi Samsung Gear VR, ripercorrendo i momenti più emozionanti della storia Nba. Il percorso della mostra è organizzato per temi: video storici e testimonianze della leggenda Julius Erving; il fascino del tiro da tre punti; le dribble moves, da Bob Cousy a Kyrie Irving; la strepitosa carriera di Kobe Bryant; le voci degli allenatori; around the rim, quello che succede attorno al canestro; l’immaginaria sfida tra i Bulls 1996 e i Warriors 2016; le giocate più spettacolari degli italiani in Nba; il Larry O’Brien Trophy, il trofeo ufficiale Nba; la storia della Wnba. «Samsung è molto orgogliosa di accogliere la Nba Digital Exhibition al Samsung District», dichiara Francesco Cordani, Head of Marcom di Samsung Electronics Italia. «La nostra azienda ha sempre dimostrato una grande passione per lo sport organizzando ogni anno importanti eventi. Questa mostra è un’ulteriore dimostrazione del nostro impegno nei confronti di uno sport come la pallacanestro che si fonda sulla lealtà e sul lavoro di squadra, valori essenziali per la nostra azienda. Grazie all’innovazione tecnologica, Samsung può offrire al nostro Paese delle esperienze uniche come questa mostra».
Quando, qualche mese prima del ritiro definitivo, Ray Allen aveva annunciato di voler tornare in Nba – ma solo se gli capitava l’occasione nei Warriors o nei Cavs, eh, e se proprio gli andava male avrebbe accettato a malincuore gli Spurs – sembrava uno scherzo, più che una vera intenzione. Parallelamente, anche Rip Hamilton aveva espresso lo stesso desiderio, a tre anni dall’ultima volta su un parquet Nba. Siamo a tavola con lui, Hamilton è seduto a fianco a sua moglie T.J. Ordina tortelli di zucca, vuole capire cos’è davvero la cucina italiana, lui che in Italia non c’era mai stato. Chiede quanto tempo ci vuole per raggiungere Roma, ha una concreta idea di andarci. «Il Colosseo… wow», e immagina di trovarsi là dentro. Ma è solo una breve digressione. Quello che si comprende immediatamente, stando a tavola con lui, è che Hamilton è ossessionato dall’Nba. E dal basket in generale. «Chi è primo nel campionato italiano?». Milano. «Quante squadre ci sono?». Sedici. «C’è il salary cap?». No, più soldi hai, più investi. La cosa lo diverte. «Non lo sapevo, davvero». Gli parlano di un prospetto interessante di Milano. «Ruolo? Altezza?».
Allora diventa tutto più chiaro. La devozione per il basket supera qualsiasi altra cosa. Once a player, always a player. «Nella mia testa tornare in Nba era possibile. Ero pronto. Ho cominciato ad allenarmi, ma il mio corpo aveva idee diverse». Ok, non lo vedremo più in campo con la canonica protezione facciale. Se a qualcuno venisse nostalgia di questo ragazzone dalla Pennsylvania, Youtube straripa delle sue prodezze con i Pistons, in squadra con Billups e Rasheed Wallace. Quei Pistons protagonisti di playoff formidabili nel 2004, con nella memoria la serie contro Indiana, in finale di Conference, e le Nba Finals contro i Lakers di Kobe, sconfitti 4-1. E se a quel Draft 2003 Detroit non avesse pescato maluccio… «Sì, prendemmo Milicic, ma in mezzo a quei futuri Hall of Famers…». Milicic era la seconda scelta assoluta, dopo LeBron: peccato che a seguire c’erano Anthony, Bosh e Wade. «Con uno di loro avremmo vinto molto di più».
I 31 punti di Hamilton in gara 3 delle Nba Finals 2004
Hamilton è un personaggio interessante, perché prima che tu possa chiedergli «Ma Jordan? Ma Kobe?», ti rendi conto che a fare le domande è lui. Vuole sapere, nell’ordine: chi è il miglior giocatore europeo in Nba e chi è quello più sopravvalutato. Fa un giro di voci, è sorprendente quanto divertente. La cassazione, però, è lui. Ci pensa su. «Il migliore è… Dirk. Dirk Nowitzki», scandisce, quasi per rendere palpabile l’ammirazione. E the most overrated? «Ricky Rubio. Non sa tirare, non sa difendere…». Però dai, parlaci di Jordan. Hamilton era ai Wizards quando His Airness tornò a giocare a Washington. Hanno giocato insieme per due stagioni, anche se quella squadra è ricordata solo per MJ che a quasi 40 anni infiammava ancora il parquet, e poco altro. Hamilton, simpaticamente, nutriva una piccola rivalità: «Perché poi decise di scambiarmi, e io andai a Detroit. E contro di lui avevo una grande voglia di vincere». Ancora più datata è la rivalità con Kobe Bryant: hanno la stessa età, sono cresciuti entrambi vicino Philadelphia, spesso si sono incrociati sul campo da avversari ancor prima di arrivare in Nba. «Kobe da giovane era già sicuro di sé, già con forti motivazioni per vincere. Potrei raccontare alcune cose divertenti. Per esempio, parlava in italiano con suo padre, che aveva giocato in Italia. Così, nel bel mezzo della partita. Istruzioni che, ovviamente, nessun altro capiva».
John Hollinger, che oggi lavora nei Grizzlies ma è stato uno dei columnist Nba più apprezzati di Sports Illustrated prima e di Espn poi, adorava Rip Hamilton. Vedeva in lui un giocatore essenziale: per la naturalezza con cui giocava, per la sostanza che apportava in campo. Hollinger odiava i giocatori come Quentin Richardson e Gilbert Arenas, che avevano fatto dell’estetica del gioco un aspetto esasperante. E questo andava in una precisa direzione: «Guardate gli highlights di una partita su SportsCenter e tenete d’occhio quante volte un giocatore si muove sulla linea del tiro libero e va a segno con un jumper corto. Potrete contarle su una mano. L’occhio dello spettatore è rapito dalle schiacciate spettacolari e dalle bombe dalla lunga distanza, e i produttori televisivi lo sanno bene. Questo, a sua volta, porta i più giovani ad allenarsi su quel tipo di tiri, sacrificando i più importanti tiri dalla media». Hamilton era il baluardo di un tipo di soluzione che nell’Nba di oggi si sta perdendo: «Le ottime difese non concedono molti tiri aperti da tre, e non permettono di arrivare al ferro senza disturbare prima. L’unica soluzione è avere Hamilton in squadra».
C’era anche dell’altro, tra le «arti perdute» – copyright Hamilton – del gioco di oggi. Per Tnt, Rip girò un tutorial sul movimento senza palla. Continuare a muoversi, cambiare velocità, eseguire movimenti a ricciolo. Ne era un maestro Reggie Miller, per esempio. «I giocatori vogliono la palla tra le mani e tirare dal palleggio. Oggi Golden State esprime il miglior movimento senza palla, e Curry e Thompson più di tutti. Sono unstoppable». A proposito di Warriors: e Durant? «Andare a Golden State è stata una grande scelta. KD è una superstar. È il giocatore con più talento della squadra, e anche i compagni lo sanno. A Oklahoma Durant doveva stare più minuti in campo, doveva prendersi più tiri, più rimbalzi. Ne doveva fare trenta a partita, ora non è più obbligato. Può farne anche quindici per essere decisivo. Un po’ come Ray Allen quando andò a Miami».