Dani Alves al quadrato

Regista aggiunto ed equilibratore, Dani Alves ha portato una mentalità diversa alla Juventus. Diventando perfettamente aderente al calcio italiano.

Paulo Dybala lo diceva in tempi non sospetti: «Dani Alves ha portato la mentalità perfetta. Meglio fare un metro in avanti che cinquanta indietro, anche perché abbiamo una difesa che può permettersi l’uno contro uno. La Juve arriva con una mentalità che c’è da tanto tempo e a volte è difficile cambiare. Io credo che se difendi a 70 metri dalla porta hai meno possibilità di prendere gol e più di farne. Lo dice Guardiola, ma anche Allegri».

L’intesa tecnica tra Dani Alves e Dybala (sulla scorta di quanto già visto a Barcellona con Messi) è una delle principali opzioni offensive della Juventus 3.0 di Massimiliano Allegri. Qualche anticipazione era già arrivata nell’esordio in campionato contro la Fiorentina

Un manifesto di quel che sarebbe diventata la Juventus da gennaio in poi e, contemporaneamente, una sorta di difesa d’ufficio per un giocatore che, nei suoi primi mesi in bianconero, aveva faticato non poco (lui che nasce terzino a tutto campo in una difesa a quattro) ad adattarsi ad un calcio molto più schematico come quello italiano. Tanto più in quel 3-5-2 che, fino allo scorso gennaio, costituiva il punto dal quale partire per rinnovare la squadra anno dopo anno: inevitabile, quindi, che un giocatore che tende a portare molto palla e a fungere quasi da creatore e costruttore di gioco in relazione a quanto proposto dalla difesa avversaria in determinate situazioni, non si trovasse a proprio agio in un sistema di (pochi) movimenti di squadra studiati a tavolino. A un certo punto, poi, ci si è messa anche la sfortuna, con la frattura del perone rimediata in occasione del 3-1 di Marassi contro il Genoa (dove venne schierato come terzo centrale), che lo ha tenuto fuori quasi due mesi.

Paradossalmente, però, quell’incidente di percorso ha costituito la fortuna sua e della Juventus: rientrato in concomitanza con l’adozione del 4-2-3-1 iperoffensivo voluto da Allegri dopo il ko di Firenze, il brasiliano ha potuto finalmente esprimersi in un contesto tecnico adeguato alle sue caratteristiche. Dal 5 febbraio ad oggi, Dani Alves tra campionato e coppe ha disputato 14 partite (10 da titolare, scalzando Lichtsteiner) di livello elevatissimo, trovando anche il tempo di segnare due gol dal peso specifico decisivo come quelli contro Porto a Atalanta. Quasi come se il tecnico avesse voluto accogliere le richieste del suo giocatore che, a metà febbraio nel corso di un’intervista a Sky, aveva fornito la soluzione ai problemi personali e di squadra: «Mi sento sempre meglio dopo l’infortunio che mi ha tenuto fuori tanto, sono a disposizione del mister per aiutare la squadra dove e come serve, ma chiaramente vorrei giocare di più. Io sono pronto a qualunque sfida, ma devo giocare di più per rientrare in forma. Sono un giocatore che ha fatto una carriera seria, aspetto che mi si dia la giusta opportunità per dimostrare il mio livello».

Il 2016/2017 di Dani Alves fino ad oggi

In particolare, la gara d’andata di Champions League con il Monaco costituisce la cartina di tornasole ideale per valutare il peso specifico dell’ex Barcellona nel nuovo sistema di gioco, ben al di là dei meri dati statistici che parlano di due assist (sui quattro complessivi nella competizione, più 23 passaggi chiave: nessuno ha fatto meglio di lui in questa edizione di Champions), tre tackles vinti, sette recuperi difensivi decisivi, il 74% di pass accuracy, il 100% di duelli vinti nei confronti del diretto avversario.

La mappa relativa alla posizione occupata (a sinistra) e quella dei passaggi effettuati (a destra), mostrano come, nella partita contro il Monaco, Dani Alves sia stato l’autentico “uomo ovunque” della Juventus, con la manovra che ne ha complessivamente giovato su entrambi i lati del campo

Contro i monegaschi, complice l’inserimento di Barzagli per non correre il rischio di dover affrontare i tagli in verticale di Mbappé con tanti metri di campo attaccabili alle spalle della linea difensiva, Dani Alves si è trovato ad agire come “esterno multifunzione”: inizialmente ponendosi come opzione aggiuntiva per l’uscita palla dalla difesa, poi diventando progressivamente la prima opzione offensiva esplorata in fase di costruzione. Non certo una novità della Juventus dell’ultimo periodo, con gran parte della produzione offensiva costruita sulle intuizioni della catena chiusa da Pjanic e Dybala.

Non è un caso che la prima rete nasca proprio dalla giocata di tacco di Dybala che, leggendo lo smarcamento del 23 al momento del lancio di Marchisio, manda completamente a vuoto la prima linea di pressione del Monaco. Il resto lo fanno l’intelligenza (e la grande resistenza fisica a dispetto dei 34 anni compiuti da pochi giorni) del brasiliano nello sfruttare il corridoio liberatosi alle spalle della coppia Sidibé-Bakayoko e il fiuto del gol di Higuain che, confidando nelle grandi qualità tecniche del compagno, non ha remore nel seguire l’azione facendosi trovare al posto giusto nel momento giusto:

Con il passare dei minuti, a cavallo tra primo e secondo tempo, la Juventus ha proposto un palleggio sincopato ed efficace, difendendosi anche con il pallone e non solo di posizione, allo stesso modo e con lo stesso agio con cui a Barcellona era stata una squadra italiana nel senso più puro del termine per ciò che riguardava la capacità di chiudersi nella propria metà campo e aspettare. Il secondo gol, arrivato allo scoccare dell’ora di gioco, è stato perciò un premio alla pazienza dimostrata nel saper attendere il momento e la situazione giusta per colpire. Il merito del 2-0 è stato, nemmeno a dirlo, di quello che era ormai il miglior giocatore dei 22 in campo che, intuendo le difficoltà di Bakayoko sul pressing di Dybala effettua il raddoppio recuperando palla (sono 13 gli intercetti effettuati nelle 10 partite di Champions disputate) e proponendosi subito in sovrapposizione: l’assist per Higuain è, forse, la cosa più facile per uno come lui.

Tuttavia, mentre sull’apporto nella metà campo offensiva c’era poco di cui dubitare (nelle ultime quattro stagioni nella Liga il suo coefficiente di precisione nei cross era costantemente il doppio dei pari ruolo), quello che sta stupendo di Alves è l’apporto che sta dando anche in fase di non possesso. Rispetto ai tempi di Barcellona, in cui, in virtù di un sistema di gioco non duplicabile altrove, poteva permettersi quella sorta di indisciplina tattica prodromica alla sua grande incisività negli ultimi trenta metri di campo, stiamo parlando di un giocatore che ha saputo reinventarsi dal punto di vista dell’attenzione e dall’applicazione. Se nel 3-5-2 faceva non poca fatica a leggere i movimenti dell’uomo che tagliava alle sue spalle, nel nuovo sistema difensivo a quattro, grazie anche alla possibilità di avere un raddoppio salvifico portato da Cuadrado o Barzagli, Dani Alves non ha più avuto problemi nel leggere quanto avveniva dal suo lato. Le due gare contro il Barcellona sono il perfetto esempio di questo concetto, di come cioè il brasiliano sia riuscito a incidere in dei fondamentali diversi rispetto a quelli che lo hanno reso celebre: non solo tecnica e pulizia nelle giocate, ma anche durezza mentale e fisica quando si è trattato di difendere compatti, di reparto e/o uno contro uno.

La prova di Dani Alves contro il Barcellona, in occasione dell’andata dei quarti di finale di Champions League

Da questo punto di vista, oltre ai numeri (che raccontano di poco più di tre azioni difensiva di media a partita – il 65% delle quali costituite da intercetti figli della lettura anticipata delle linee di passaggio altrui – senza alcun errore significativo), è bene sottolineare anche come Dani Alves sia diventato fondamentale dal punto di vista mentale, dell’attitudine a giocare partite di un certo livello, della convinzione che è in grado di infondere nei compagni di squadra che hanno trovato in lui un ulteriore punto di riferimento. Tutto questo potrebbe sembrare naturale, persino scontato per un giocatore del suo livello e del suo pedigree, e invece l’essersi imposto come leader (non solo tecnico) riconosciuto e riconoscibile all’interno di uno spogliatoio cementato sulla BBC e sul totem Buffon, ha rappresentato una sfida non semplice, soprattutto per uno con la sua personalità debordante dentro e fuori dal campo.

Non è quindi sbagliato dire che Dani Alves, anche a 34 anni, sia riuscito a rinnovarsi, rinnovando anche il modo di giocare (e di pensare) della Juventus e realizzando il perfetto connubio tra filosofia offensiva ed equilibrio difensivo. Il giocatore che mostrò al mondo come Guardiola intendesse sfruttare i suoi terzini (chiamati a creare gioco accentrandosi e sfruttando lo spazio creato dal movimento degli esterni alti) è oggi un elemento che ha completato la sua maturazione, un equilibratore della doppia fase che coniuga quantità e qualità senza nulla togliere alla solidità e alla compattezza dei reparti. Del resto Massimiliano Allegri lo aveva sottolineato con anticipo: «Dani Alves ha fatto lo stesso percorso di Evra. I primi tre mesi ha avuto grandi difficoltà perché veniva da un campionato completamente diverso e da un tipo di calcio possibile a una sola squadra al mondo. Per questo ha dovuto, necessariamente, adattarsi ed ambientarsi, con l’infortunio che ha finito per rallentare questo processo. Ma già adesso posso dire che è perfettamente in grado di giocare il calcio che gioca la Juventus perché è un campione e i campioni capiscono lo sviluppo del gioco prima degli altri e si adattano».