Quasi un anno fa Lorenzo Insigne viveva un incubo lungo una notte. 19 ottobre 2016, Stadio San Paolo, il Napoli contro il Besiktas per una partita di Champions League nata sotto gli oscuri presagi della rete di Adriano al 12′ e indirizzatasi dopo il gol dell’1-2 realizzato da Aboubakar a sette minuti dalla fine del primo tempo. La ripresa era iniziata da pochi minuti quando l’arbitro Karasev aveva concesso agli azzurri il rigore che avrebbe rimesso le cose al proprio posto. Per questo Lorenzo Insigne si era preso un pallone che sentiva di meritare, che sentiva essere suo. La rincorsa era stata quella tipica di chi stava per calciare forte di collo-interno poi però, al penultimo passo, il numero 24 aveva cambiato idea e aveva optato per un saltino che doveva spingere il portiere a muoversi in anticipo verso un lato e che, invece, aveva avuto come unico effetto quello di sbilanciarlo: quello che ne era venuto fuori era stato un “non tiro” che Fabri, estremo difensore dei bianconeri di Turchia, aveva parato un po’ con le mani un po’ con la faccia. Poco dopo, Insigne era stato sostituito da Gabbiadini e cedeva alle lacrime che stava facendo sempre più fatica a trattenere mentre tutto il San Paolo stava fischiando: quella che si era materializza sembrava la scena madre – dopo la maglia scagliata via in occasione del preliminare di Champions di due stagioni prima con l’Athletic Bilbao e l’invito, provocatorio, ad aumentare i decibel della contestazione nei suoi confronti, dopo un’altra sostituzione in una partita contro la Lazio del gennaio 2014 – di una tragedia che si era già consumata altre volte e che aveva visto un ragazzo di Napoli trattato come il traditore, il reprobo, quello che non ci aveva mai tenuto davvero. In un modo, se possibile, ancora più ingrato e crudele del solito perché contestuale a un rinnovo di contratto che tardava ad arrivare e che faceva apparire tutto come una “questione di soldi” anche se non lo era.
L’errore dal dischetto contro il Besiktas
A meno di dodici mesi di distanza le prospettive si sono totalmente ribaltate: a 26 anni appena compiuti e all’apice della sua maturità calcistica, Lorenzo Insigne è un legittimo candidato al ruolo, pur volubile, di miglior giocatore italiano in attività. È la pietra angolare del sistema offensivo del Napoli di Sarri, si è visto riconosciuto uno status da top player con un ricco rinnovo contrattuale fino al 2022 e in Nazionale ha ereditato il numero 10 che fu di Baggio, Del Piero e Totti. Niente di tutto questo era scontato: Insigne ha dovuto “riciclarsi”, riscoprirsi fondamentale, rispondendo a tutte quelle domande (per non dire pretese) di grandezza che avevano condizionato la prima fase della sua carriera. Perché da campione generazionale tout court a questa nuova versione di fantasista fortemente associativo in grado di dare concretezza alla bellezza del collettivo sarriano, il passaggio è stato lungo e, a tratti, doloroso.
Quello che ritorna a Napoli, nel 2012, è un giocatore che sembra aver già intuito come convivere con l’aura del predestinato. Molto più di Marco Verratti, suo compagno nel Pescara di Zeman (che aveva già allenato Insigne nella sua seconda parentesi a Foggia) e che pure viene acquistato dal Psg senza che abbia ancora mai esordito in un campionato di prima divisione. Del resto, non può essere altrimenti: del tridente completato da Immobile e Sansovini, Insigne è l’elemento che descrive al meglio il dominio che gli abruzzesi hanno esercitato sulla Serie B nella stagione 2011/12. Ingestibile quando può attaccare fronte porta palla al piede, costantemente in grado di andare via a chi lo fronteggia in single coverage, abilissimo nel leggere ciò che gli oppone la difesa avversaria quando si tratta di trovare il proverbiale spiraglio per l’ultimo passaggio, addirittura diabolico e manipolatore per il modo in cui riesce quasi sempre a calciare con l’interno del suo piede destro verso il palo più lontano, avanzando la sua candidatura a cosplayer di Alessandro Del Piero di cui si dice avesse il poster appeso in cameretta a Frattamaggiore: un giocatore, ed è proprio il caso di dirlo, semplicemente fuori categoria.

L’entusiasmo e l’esaltazione collettiva che caratterizzano quei mesi sono pari solo alla durezza dell’impatto con il calcio “dei grandi”: imbrigliato nel rigido schematismo del 3-5-2 di Walter Mazzarri, Insigne si trova a fare i conti con quello che in America chiamano rookie wall, il muro tattico, tecnico e psicologico che ogni giovane, per quanto promettente, deve imparare a superare se vuole costruirsi una carriera di alto livello. Di colpo, un giocatore che sembrava non avere idea di cosa fossero le difficoltà, ne incontra di apparentemente insormontabili, tanto più in un contesto in cui la dimensione fisica assume un’importanza preminente rispetto a quella tecnica in velocità che gli permetteva di conquistare un vantaggio sul diretto avversario nonostante fosse costantemente il più basso e il più leggero tra i 22 in campo. Ancora incapace di ritagliarsi il proprio spazio in un collettivo con posizioni fisse e rotazioni codificate in cui il “Magnifico” fatica anche a fare valere le proprie capacità individuali, che vengono fagocitate da un contesto in cui tutto è diventato improvvisamente più complicato o, comunque, meno facile. Come se Insigne si fosse dovuto risvegliare da un bellissimo sogno e dovesse fare i conti con una realtà diversa e peggiore.
Il risultato è una stagione da supersub con cinque gol (di cui uno nel finale di partita contro il Cagliari, fondamentale per la rincorsa al secondo posto e l’accesso diretto alla fase a gironi di Champions) mandati a referto, vissuta con l’ansia di dover stupire sempre e comunque a prescindere dal minutaggio. Un dettaglio che accentua la complessità della gestione di pressioni e auspici di futuro splendore, soprattutto nelle gare interne. E con Benítez non va certo meglio: il tecnico spagnolo, pur essendo il primo a intuire le potenzialità di Insigne come esterno offensivo moderno, lo sacrifica tantissimo in fase di non possesso (un’esperienza che, comunque, gli tornerà utile in futuro) e lo limita sempre più nell’ultimo terzo di campo per ciò che riguarda compiti, funzioni, e contributo offensivo (11 reti e 16 assist in due stagioni), aumentando le incertezze e i dubbi sulle future prospettive. Da progetto di campione a uno come tanti, con l’ulteriore tegola della rottura del legamento crociato del ginocchio destro che lo taglia fuori proprio quando stava iniziando a prendere confidenza con il nuovo ruolo.
Il Milan umiliato a San Siro, la prima doppietta in Serie A di Insigne, il 4 ottobre 2015
L’Insigne che Maurizio Sarri trova al momento del suo insediamento sulla panchina azzurra è, perciò, un giocatore umorale, incompleto, indefinito e indefinibile: da reimpostare del tutto, proprio come il resto della squadra. Il tecnico toscano lo prova prima alle spalle delle punte, poi, dopo aver trovato la quadra collettiva con il 4-3-3 di cui Higuaín è il perno attorno al quale ruotare, lo riporta sì alle origini ma gli apre anche nuove prospettive sulle zolle che si trova a calpestare: agendo da trequartista spurio piuttosto che da ala, Insigne riesce a ricollocarsi in un contesto di squadra finalmente rispondente alle sue caratteristiche, scoprendosi determinante soprattutto per ciò che riguarda l’utilizzo del pallone e cosa si deve fare quando quest’ultimo si trova tra i piedi dei suoi compagni. Insigne impara così a ragionare in un’ottica di collettivo per cui il concetto di dominio (tecnico, ma non solo) viene declinato attraverso la sincronia e il moto perpetuo, trasformandosi nel plenipotenziario della manovra offensiva e “specializzandosi” nel movimento che ancora oggi costituisce l’ago della bilancia nelle performance dei partenopei: vale a dire il cross tagliato e tagliente da sinistra a destra alle spalle dell’ultimo difendente sul fronte opposto a premiare l’arrivo di Callejón, innescato sempre con i tempi giusti dopo aver attirato gli avversari in zona palla, in una riedizione pallonara dello “Stockton to Malone” che fu. Non è un caso, quindi, che dal 2015/16 Insigne sia il giocatore del Napoli ad aver creato il maggior numero di occasioni da gol (22 assist e 125 passaggi chiave in Serie A, rispettivamente quattro e 11 soltanto in quest’inizio di stagione) oltre che uno cui Sarri difficilmente rinuncia (97 presenze tra campionato e coppe dall’agosto 2015, 49 su 50 gare disputate dagli azzurri nel 2016/17).
Dopo meno di 10 minuti, al Bernabeu, 15 febbraio 2017
Anche dal punto di vista del cinismo e della concretezza la crescita è stata tanto evidente quanto esponenziale: se, con Higuaín, Insigne poteva giovarsi dell’attrazione magnetica che il 9 argentino generava sui difensori avversari, nel Napoli del Mertens falso nove e del possesso palla prolungato, si è reso necessario ricostruire quasi da zero la connessione con il belga, in base alla quale calcolare il timing dell’interazione per ciò che riguarda la relazione tra effettuazione e ricezione del tocco in profondità per eludere la pressione della linea difensiva avversaria. Dopo un digiuno che si protrae per i primi tre mesi della stagione (appena 4 assist in 1.020 minuti complessivi), Insigne segna, tanto e spesso: 16 gol in 25 partite di campionato da novembre a maggio e arriva a quota 20 complessivi in tutte le competizioni, fissando il suo nuovo record di marcature e mandando definitivamente in archivio l’immagine caricaturale del ragazzino di talento che cerca unicamente di calciare come faceva Del Piero, in un perenne e forzato tentativo d’emulazione.
Le critiche ricevute in occasione delle ultime uscite con la Nazionale hanno rafforzato l’impressione di un giocatore cui manchi l’ultimo passo per la definitiva consacrazione. L’Insigne di oggi si è dimostrato un elemento fondamentale e decisivo in un sistema di gioco ben rodato, ma che non riesce ancora a incidere compiutamente quando deve agire al di fuori di uno spartito tecnico e tattico predefinito, di fatto ribaltando il pensiero comune che si aveva di lui all’inizio della carriera. Qualora si riuscisse a bilanciare la nuova dimensione associativa del suo calcio con una più immediata, istintiva ed estemporanea, saremmo al cospetto non solo del miglior giocatore italiano del momento, ma anche dell’ultimo depositario della tradizione dei grandi fantasisti che furono.