Gli affidabili

I giocatori di Serie A che, in silenzio, non sbagliano una stagione.

Nel gennaio del 2016 il Telegraph ha pubblicato sul proprio sito la classifica dei 20 calciatori più sottovalutati di tutti i tempi. Che sia condivisibile o meno, non si può non notare come il concetto di underrated venga spesso inteso separatamente da quello di “affidabile”. Non per forza un giocatore sottovalutato è per forza affidabile e viceversa: ci sono calciatori che, al netto di mezzi tecnici e fisici che avrebbero consentito un tipo di carriera diversa, hanno trovato la propria dimensione ideale in realtà diverse da quelle più celebrate, in cui l’impatto delle prestazioni risulta massimizzato in relazione al contesto e agli obiettivi da raggiungere. E in una Serie A in cui il divario tra le prime cinque della classe e le altre tende ad allargarsi sempre di più, ci sono giocatori “affidabili” che risultano molto più decisivi di altri.

Cyril Théreau

Costantemente in doppia cifra nelle ultime tre stagioni (e con almeno 10 gol all’attivo in quattro degli ultimi sette campionati) e già a quota sei (in 10 presenze) in questo primo scorcio di 2017/18. Numeri inequivocabili e che dimostrano essenzialmente due cose: che Cyril Théreau è uno dei giocatori  più concreti, decisivi e sottovalutati della Serie A; e che l’Udinese si è condannata a quest’annata di lacrime e sangue nel momento in cui, già orfana di Zapata, ha deciso di privarsi del suo miglior giocatore, credendo, Del Neri in primis, che l’insipienza di Maxi Lopez, il talento grezzo di Perica e la sporadicità dei guizzi di Lasagna potessero compensare la rinuncia a 35 gol in tre anni. Non è, tuttavia, solo una mera questione realizzativa: Théreau si è dimostrato un attaccante moderno e versatile, in grado di agire sia da prima che da seconda punta (e, talvolta, anche da esterno offensivo), di creare per sé e per gli altri (10 assist e 163 passaggi chiave dal 2012/13), di occupare al meglio gli spazi dell’intero fronte offensivo, tanto in ampiezza quanto in profondità. Il tutto condensato in una narrativa a metà tra quella del bomber di provincia e della promessa non mantenuta, in cui l’accettazione dei propri limiti è la pietra angolare su cui costruire una solida fama di affidabilità. Lo dimostrano le sue prime parole da calciatore della Fiorentina: «In Italia ho conosciuto il calcio vero, sono migliorato tanto fisicamente e tecnicamente. Se avessi avuto la possibilità di arrivare prima in Italia, forse la mia carriera sarebbe stata diversa. È vero che avrei potuto andare all’Inter in passato, ma il destino è bello, perché oggi sono qui e vuol dire che me lo sono meritato».

Galleggia fuori dall’area di rigore per smarcarsi, si coordina alla perfezione e trova l’angolo giusto

Francesco Acerbi

La carriera di Francesco Acerbi è un inno alla resilienza e a quello che poteva essere e non è stato: rivelazione ai tempi del Chievo, delusione ai tempi della grande occasione non sfruttata con il Milan, colonna portante del Sassuolo dei miracoli di Eusebio Di Francesco (11 gol in 119 presenze, unico giocatore di movimento ad aver disputato tutti i 3420 minuti della scorsa stagione). Lasciandosi alle spalle un brutto male, un’accusa infondata di doping e facendosi guidare dalla legittima ambizione di rimettersi in gioco ad alti (ed altri) livelli, aspettando l’ultimo treno utile, confidando nella sua rinnovata modernità di centrale: indifferentemente in grado, cioè, di guidare una linea difensiva mediamente alta, di facilitare la costruzione bassa grazie al suo mancino educato (85% di pass accuracy di media da quando è in Emilia, con oltre il 70% dei tocchi effettuati in verticale) e di essere costantemente tra i primi 10 difensori del campionato per recuperi decisivi. Che questo treno, poi, possa anche non (ri)passare, rientra perfettamente nella storia personale e professionale di un calciatore che sembra aver trovato a Sassuolo la dimensione ideale in cui esprimersi al meglio.

Tiene in velocità e poi chiude in modo pulito

Marco Parolo

Marco Parolo è un giocatore riconoscibilissimo nei suoi pregi e difetti: si tratta del classico elemento di sistema, tecnicamente nella media, perfettamente funzionale in un contesto in cui ruoli e compiti sono ben definiti, ma poco a suo agio quando si deve adattare ad un’impiantistica di gioco diversa. A dimostrarlo c’è la marcata differenza di rendimento tra Lazio (dove è uno dei più continui anche a livello realizzativo: dopo l’exploit del 2014/15 – 10 gol in 34 presenze – ci si attesta costantemente tra le tre e le cinque marcature stagionali) e Nazionale (33 presenze senza infamia e senza lode, con un Mondiale e un Europeo all’attivo), oltre a caratteristiche di base che si sono cristallizzate nel tempo: un ottimo tiro dalla distanza (45% la shot accuracy media nelle ultime tre stagioni), una grande capacità negli inserimenti senza palla dal lato debole, una sapiente lettura dei flussi di gioco che gli consente di occupare al meglio gli half spaces in entrambe le fasi. Abbastanza per garantirsi l’imprescindibilità nella Lazio di Simone Inzaghi, manifesto contemporaneo dell’esaltazione di un calcio collettivo, associativo e vincente indipendentemente dalla qualità dei singoli interpreti.

10 gol in 34 presenze: l’exploit realizzativo di Marco Parolo nel 2014/15

Duvan Zapata

Per quanto superata e fuori dal tempo e dal calcio moderno, la figura del centravanti “operaio”, raramente in doppia cifra, che lavora per la squadra sacrificando la sua continuità realizzativa, è stata notevolmente rivalutata dall’impatto che le prestazioni di Duvan Zapata stanno avendo su quelle della Sampdoria di Giampaolo e, ancora prima, dell’Udinese («Lì ero in una situazione particolare: dovevo far uscire la squadra e finivo per trovarmi spesso lontano dalla porta. È stata dura, ho fatto tanta fatica, segnato ma anche fatto segnare tanto»). Nelle ultime stagioni il colombiano si è dimostrato giocatore utilissimo in qualunque contesto, da primo ricambio di Higuaín quando si trattava di dare maggiore concretezza al possesso palla sincopato del Napoli di Benítez (uno dei pochi ad averlo apprezzato fin da subito) a nuovo riferimento offensivo blucerchiato, in grado di mettere le proprie straripanti doti fisiche al servizio del calcio più immediato e verticale predicato dal tecnico doriano. Oggi Zapata è (anzi, è sempre stato) un attaccante completo e polivalente, in grado di far salire la squadra e di dettare il passaggio in profondità, tecnicamente sottovalutato, persino disprezzato in quella sua diversa modernità che ne fa capire l’importanza delle sue doti di “facilitatore” della manovra (11 assist e 62 passaggi chiave da quando gioca in Serie A: un dato impressionante considerando che ha trovato continuità di impiego solo nelle ultime due stagioni) solo quando non si può più contare su di lui: risultato di un percorso di crescita costante, in cui alla non eccessiva appariscenza del suo gioco ha fatto da contraltare la grande incisività in contesti calcistici semplici ma efficaci.

Far segnare gli altri

Iago Falque

Quando, nell’ottobre di un anno fa, scrivevamo su Undici di uno Iago Falque ago della bilancia del Torino di Mihajlovic all’apice delle sue possibilità, raccontavamo di un giocatore restituito a livelli di eccellenza assoluti dopo l’anno di purgatorio alla Roma, nell’ennesimo rollercoaster di una carriera unica nel suo genere. La Juventus lo prende nell’agosto 2008 versando un indennizzo al Barcellona, convinto di aver strappato alla cantera blaugrana una perla rara: è, in realtà, l’inizio di un peregrinare senza sosta e senza senso tra Bari, Villarreal, Tottenham, Southampton, Almería e Rayo Vallecano, prima di Genova e dell’incontro con Gasperini che gli cambia la vita (13 gol, 3 assist e 45 key passes nel 2014/15). L’anno romano finisce, paradossalmente, per fortificarlo dal punto di vista mentale, trasformandolo in quello che il tecnico serbo, sempre parco di complimenti, definisce «il giocatore che ogni allenatore vorrebbe avere perché continuo, affidabile, che fa bene entrambe le fasi, che si allena al meglio, che segna e fa segnare» (17 gol e 74 occasioni create in poco più di una stagione e mezza): ad oggi la sensazione di imprescindibilità e di principale artefice delle fortune granata cresce partita dopo partita. E a 28 anni ancora da compiere il meglio potrebbe ancora venire.

Il gol di Iago Falque a San Siro contro l’Inter

Lucas Castro

Probabilmente il momento più alto della carriera di Lucas Castro è stato il videomessaggio in cui Diego Armando Maradona lo ringraziava per la canzone che “El Pata” gli ha dedicato, riadattando in musica la telecronaca del gol del siglo di Victor Hugo Morales. Ringraziamento arrivato, oltretutto, nell’immediata vigilia della doppietta alla Fiorentina dello scorso primo ottobre. Castro è uno dei migliori e meno celebrati calciatori sudamericani sbarcati in Italia negli ultimi cinque anni: fedelissimo di Maran fin dai tempi del Catania in salsa argentina («Mi ha dato subito fiducia facendomi capire il calcio italiano»), è un giocatore in grado di mantenere un elevato standard di rendimento tanto da esterno alto nel 4-3-3 catanese quanto da mezzala di corsa e inserimenti nel 4-3-1-2 clivense, ideale trait d’union tra due squadre molto diverse eppure molto simili nel suo mantra di «giocare semplice e correre tanto». Qualità, quantità e fiuto del gol: 24 nelle cinque stagioni e mezzo in Italia (compreso il 2014/15 in Serie B), con due record significativi: quello personale di realizzazioni nel corso di una singola annata (5 gol in 33 presenze nel 2016/17) e quello di essere una delle poche eccezioni alla regola delle plusvalenze (in estate sono state rifiutate offerte anche di 10 milioni) grazie alle quali le medio-piccole del nostro campionato riescono a sopravvivere.

Gran stacco di testa per il secondo gol personale contro la Fiorentina