L'attaccante del Milan sa che la strada è lunga, ma sa anche come proteggere il suo talento.
«Vengo da un paese tranquillissimo, dove nessuno mi dà fastidio. Anzi, i ragazzini arrivano lì a farmi domande e mi piace, è bello. Perché vedo nei loro occhi che vorrebbero essere al mio posto». Patrick Cutrone sceglie queste parole per raccontarmi Parè, la frazione di Colverde dov’è cresciuto, in provincia di Como. Meno di duemila abitanti, i “parediensi”, riuniti intorno alla chiesa di San Giovanni Battista. Qui nacque nel 1778 l’illusionista Giuseppe Leoni, celebre per essere “l’Uomo incombustibile” che maneggiava ferri incandescenti e beveva olio bollente.
Alla Parediense, la formazione dell’oratorio, Cutrone impressionava già. Da solo faceva mezza squadra, come di recente ricordava il presidente di allora. Lui ha un filo di imbarazzo a spiegarmi come esultava: «Dopo i gol gridavo i nomi dei più grandi dell’epoca. Di sicuro Inzaghi, non mi ricordo gli altri… Io rimango quello, anche se molte cose sono cambiate». E sorride: «Non sono ancora tanto abituato alle interviste».
Aveva otto anni quando è entrato nel Milan. Significava allenarsi a chilometri da casa, fare il pendolare a quell’età. Sacrifici suoi e dei genitori, oggi ci tiene a sottolinearlo a costo di ripetersi. La famiglia è il suo punto di riferimento assoluto. «Un rapporto stupendo. Mi consigliano per non fare errori», dice. «Mi proteggono», dice due volte.
Patrick ha un tatuaggio sull’avambraccio: le sagome di due adulti e due giovani che passeggiano su una spiaggia al tramonto. Sotto, una scritta: FAMIGLIA. Sono i genitori, lui e il fratello Christopher, che fa il portiere nell’As Castello, in Svizzera. Dà un bacio al tatuaggio dopo ogni rete, è la sua esultanza.
Lo voleva l’Inter. La storia l’ha raccontata suo padre: Patrick fa un provino coi nerazzurri, segna otto gol, la società temporeggia. A quel punto arriva il Milan e per accordarsi basta una stretta di mano.
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136 reti nel corso del decennio nel vivaio rossonero. Un’ultima stagione davvero importante in Primavera. L’intera trafila delle Nazionali giovanili, con prestazioni e risultati affidabili. L’esordio in prima squadra a maggio scorso, una manciata di minuti contro il Bologna. Indossare la maglia del Milan in Serie A era un suo obiettivo, mi spiega.
La vita gli cambia quest’estate. Segna il primo gol della prima partitella del ritiro. Segna il primo gol della prima amichevole. Poi la clamorosa doppietta al Bayern Monaco. Il suo rendimento è tale da convincere Montella a tenersi il ragazzo e non mandarlo a giocare altrove. L’estate che promette, il calcio che non conta, portano alla luce un talento concreto.
«Sinceramente non lo immaginavo. Però ci speravo e mi sono impegnato. Ora mi godo il momento». Nonostante il mercato sontuoso di quest’estate, nonostante la forte concorrenza di giocatori offensivi, Cutrone ha trovato spazio. E l’ha sfruttato. D’altronde il suo modello è Morata: «Per come attacca l’area, per come sa cogliere l’opportunità». Nelle prime undici presenze, 5 gol e 2 assist, e un minutaggio di poco inferiore a quello di André Silva e superiore a Nikola Kalinic, i suoi più diretti concorrenti nel ruolo.
Non si sentiva un predestinato, non aveva la certezza assoluta di arrivare. Ma poi cos’è arrivare? Lui nomina la Nazionale maggiore e le coppe alzate col club. E rispetto a ciò che ha dimostrato finora, aggiunge, «ci vuole ben altro». Gli chiedo se sta provando meraviglia di fronte al successo. Se ha paura di svegliarsi, o se invece è intimamente convinto che il meglio debba ancora venire. Rimane cauto, asciutto: «So benissimo di essere all’inizio».
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Duecentoventi anni dopo l’Uomo incombustibile, a Parè ci è nato lui. Il 3 gennaio 1998.
Era la seconda stagione di Vincenzo Montella alla Sampdoria, pochi giorni prima aveva segnato la sua prima tripletta in Serie A. Lui, Patrick, ha spiegato che i gol del suo allenatore se li va a vedere su internet, non ha un ricordo diretto.
Un calciatore di quest’età ha anche bisogno delle cose normali che fanno i coetanei. Tipo andare a mangiare cibo giapponese e frequentare persone con una vita più normale. «Ho tanti amici fuori dal calcio. Quel poco tempo libero che si ha, si esce. È anche un modo per staccare». Gli chiedo se i suoi amici hanno comprato Cutrone al fantacalcio, se hanno rischiato l’investimento. Lui ride: «Sì, alcuni sì. Ma sui social mi arrivano messaggi di tanta gente che “m’ha comprato”. Sento la responsabilità».
1998. Un calciatore di quest’età non ha viaggiato molto, se non per il calcio. Per esempio lui è andato in Cina, quest’estate, in ritiro con la prima squadra. «È stata l’esperienza più bella. Vedi una realtà tutta diversa dalla nostra, come cultura, come mentalità. Ho incontrato solo persone aperte, che non si fan problemi. È una società molto più avanti, lo vedi già dai palazzi». Gli chiedo se fosse la prima volta fuori dall’Europa. Ci pensa e no: era stato in Sudafrica con la Primavera.
Gli amici sono anche nel calcio. Su tutti, Manuel Locatelli, con cui sta percorrendo una strada in parallelo. «È il mio migliore amico». Sono nati a cinque giorni di distanza, nello stesso anno. Sono cresciuti in paesi, Galbiate e Parè, separati da quaranta chilometri. Sempre insieme e da sempre, Cutrone e Locatelli. Compagni di club e di Nazionali giovanili da nove anni. Ora sono arrivati entrambi in Serie A ed entrambi in Under 21.
Loro due ma anche Donnarumma, Kessié, Calabria. Il Milan è di sicuro tra i più coraggiosi club italiani nel lanciare ragazzi che non arrivano ai vent’anni. L’idea di Cutrone è che possano aggiungere qualcosa di importante: l’entusiasmo e la voglia di arrivare. E avere accanto gente navigata come Biglia, Montolivo, Bonucci, dà luogo a uno scambio cruciale. «Tutti mi danno consigli. E mi aiutano un sacco perché hanno esperienza». Dopo la rete allo scadere contro il Rijeka in Europa League, il primo compagno a corrergli incontro è stato Marco Storari, classe ’77, che potrebbe essere suo padre.
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Se dovesse descrivere le sue caratteristiche a chi non lo conosce, Patrick Cutrone gli parlerebbe di «grinta, determinazione, voglia di arrivare e fame di gol». In effetti, nel suo caso, la generosità sul terreno va insieme a una spietata capacità realizzativa. Sente che partecipare alla manovra assieme ai compagni non è secondario rispetto alla quantità di reti segnate: «È sbagliato valutare un attaccante solo da quello, il gol non è tutto. Hai il dovere di aiutare la squadra».
Si sta dimostrando un attaccante moderno, orientato alla completezza più che alla specializzazione. Solido fisicamente, intelligente nei movimenti, pratico nelle soluzioni. Quadrato nei ragionamenti, per niente incline a esibire, gigioneggiare con la palla, nonostante le tentazioni dell’età. Forse il carattere che emerge con più forza dal suo calcio è l’ostinazione. Seguire un’azione che pareva morta, cercare una deviazione che sembra impossibile. Spingere dentro il pallone anche senza badare all’estetica, anche torcendo il corpo in modo innaturale, pur di riuscirci.
Cutrone è poco indulgente con se stesso, dice di continuo che deve migliorare. «Sicuramente il Milan mi aiuterà». Interessante che un elemento su cui vuole concentrarsi sia il piede sinistro. Proprio lui che è un ambidestro naturale, già di suo avanti rispetto all’infinità di calciatori con un piede del tutto debole. Lavorare su qualcosa che potrebbe già andare benissimo così. Glielo faccio notare, lui insiste: «È molto importante saper usare entrambi i piedi, in partita capita». Equipaggiarsi al meglio, crescere, mettersi al riparo da qualsiasi eventualità.
Nell’improvvisa sovraesposizione non tutti riescono a mantenere la lucidità. Che significa, nel suo caso, sfruttare il tempo per proteggersi. Imparare a farlo da solo, perché i genitori non possono avere questa funzione a oltranza. Patrick Cutrone sembra concentrato ad accogliere l’età adulta nel modo migliore, piuttosto che adagiarsi e nascondere i propri limiti. Ci saranno le critiche e le difficoltà, perché ci sono in qualsiasi carriera. Il tempo è la sua occasione per arrivare pronto a quel transito. Il tempo non è un alibi, né uno scudo che permette di non vedere. A diciannove anni non tutti riescono a capirlo. Credo sia per tutto questo, se rifiuta la proiezione che gli propongo: dove si vede tra dieci anni? Si smarca, mi spiega che vuole affrontare quello che viene un passo alla volta. «Step by step» dice. «Non ho ancora fatto niente. Sono solo all’inizio».
Le statistiche sono aggiornate al 5 ottobre 2017
Dal numero 19 di Undici
Fotografie di Claudia Ferri