Il discorso di Re Giorgio

Riservato, silenzioso, irruente, saggio, lavoratore: uno dei migliori difensori italiani si racconta.

Quando si è aperta la possibilità di incontrare Giorgio Chiellini ho provato da subito un senso di curiosità, che è continuato nei giorni precedenti l’intervista e anche sul treno che da Milano mi portava a Torino. Il motivo ha a che fare con il rapporto tra la persona – privata, umana – e l’avatar – pubblico –, che è una dicotomia tra le più forti nel calcio, un mondo in cui media, tifosi, e anche le squadre stesse sono impegnate ogni giorno a creare immagini olografiche degli atleti che diventano protagoniste di narrazioni fantastiche, che sconfinano nella fiction. Anche Giorgio Chiellini fa parte di queste narrazioni: è considerato uno dei difensori più temuti, è piuttosto “maltrattato” ogni domenica dai tifosi non della Juventus perché visto come rude, provocatore, sbrigativo nei modi. Quello che mi incuriosiva, fuori dalla dimensione del campo, era la sua assenza dalla narrazione pubblica solitamente occupata dai calciatori: Giorgio Chiellini si mostra poco, rilascia poche dichiarazioni, sembra – cosa rara quando si parla di uomini di sport – un uomo che vuole essere soltanto un uomo, non un totem, non un simbolo, non una stella. Quando è arrivato l’ho osservato camminare, e ho notato la prima differenza con il Chiellini roccioso che difende la squadra più vincente d’Italia: è dinoccolato, è gentile nei movimenti. Gli ho detto che in un paio d’ore avremmo finito. Mi ha risposto che non c’era nessuna fretta, solo che gli sarebbe venuta fame verso l’una, anche se erano soltanto le dieci del mattino.

The Hurt Locker è il film con cui Kathryn Bigelow ha vinto, nel 2010, i premi Oscar per Miglior film e Miglior regia. Racconta la storia di Will James, sergente dell’Esercito statunitense in Iraq, caposquadra di un’unità di artificieri. James ha talento, ma soprattutto è un uomo diviso tra metodi da duro e un cuore sensibile. Il suo segreto è una dipendenza strana, che non può essere compresa da un civile: Will James non può fare a meno della guerra. Lo spettatore se ne accorge negli ultimi minuti di film, quando il sergente è tornato a casa, e pulisce funghi champignon e pela carote con la moglie, mentre parla di materiale esplosivo. Poi parla con il figlio delle cose che gli piacciono, e dice: «Quando sarai arrivato alla mia età, rimarranno solo una o due cose. Per me penso sia una sola». Nell’inquadratura successiva, un elicottero da trasporto CH-47 atterra in Iraq. Al suo interno, Will James sta per iniziare un altro anno sul campo di battaglia.

Quando, in quella giornata d’autunno a Torino, chiedo a Giorgio Chiellini qual è stato il momento più felice della sua carriera, qualcosa nella sua risposta mi fa ripensare a quella scena, e a quel film, e al sergente William James. Lui sorride, ci pensa qualche secondo, poi dice: «Non posso sceglierne uno. Perché le vittorie sono tutte incredibilmente belle, e non è vero che ci si annoia. È brutto da dire, ma diventa una specie di droga. Una cosa di cui hai bisogno, perché se uno prova una volta quelle emozioni, poi fa di tutto per tornare a provarle. Almeno, credo succeda questo a quelli che vincono molte volte». Se Chiellini non sa cosa significa non vincere, io conosco la sensazione opposta, e mi devo fidare di lui: non sono competitivo, non ho mai stimato particolarmente l’adrenalina, anzi. Mi incuriosisce, però, un tipo di personalità che non capisco, e Chiellini non si fa pregare, spiega meglio, esplora il concetto: «Me ne rendo conto in me, e guardando anche Gigi e Andrea», e intende Buffon e Barzagli, «l’esaltazione per una vittoria dura poco, forse solo in campo, non hai fatto qualcosa per cui devi impazzire di gioia. La prima reazione è quella di rilassarsi».

Questi primi mesi di campionato di Serie A sembrano molto interessanti. Dopo molte stagioni di interessamento tiepido, ho ricominciato a passare alcuni fine settimana a guardare molte ore di solo calcio, convinto da una narrazione mediatica persuasiva, da nuovi giocatori e allenatori, da una nuova competitività che sembra promettere un buon tasso di thrill in tutti gli ambiti della classifica, almeno fino alla prossima primavera. Questo, naturalmente, è quello che si vede da fuori. Com’è visto da dentro invece? Diverso, dice lui: «È una stagione stimolante tanto quanto le altre». Sembra sminuire, ma qualcosa mi dice che sarebbe un’interpretazione troppo semplice. Continua: «Nel senso che sarà stimolante sempre. Da anni, e anche quest’anno, noi la corsa la facciamo su noi stessi». Mi accorgo che spesso, quando parla, Giorgio Chiellini parla di lui e della squadra, o di lui come squadra, insomma risponde a domande individuali come si fa con domande collettive. Forse, immagino, è qualcosa che ha a che fare con il suo ruolo nella squadra, quello di difensore. Mi accorgo, poco più avanti, di un’altra cosa ancora: Chiellini parla molto di organizzazione. Gli chiedo che tipo di difensore è, e prima dice che «contro attaccanti fisici per me è più semplice, con quelli più veloci cerco di usare meglio la testa, di conoscerli in anticipo», poi però ecco che torna: «È uno sport di squadra, alla fine. Se la squadra lavora bene, un difensore non va mai in difficoltà. Quando ci si muove male non va bene niente, neanche per i migliori. Ci dev’essere organizzazione e fiducia».

Dice che «è una questione di equilibrio», ma tra i tifosi avversari, Giorgio Chiellini non ha la fama di difensore equilibrato. Piuttosto di marcatore troppo ruvido, forse anche antipatico. Eppure ride molto, e parla anche molto, sempre con un accento fortemente livornese, e sa spiegare che la sua fama di cattivo nasce da ragazzino, e che il problema è che il calcio ha una memoria troppo lunga, e spesso non sa cambiare idea: «Quando avevo ventidue anni ogni partita era un modo per sfogare l’agonismo, era tutta una guerra, una battaglia, perché a quell’età sfogavo in quel modo la tensione e l’adrenalina. Ma più che cattivo ero fastidioso. Ora sono quindici anni che ci sono abituato, ma quando sei all’inizio è tutta una scoperta, e non capisci bene dove indirizzare l’energia, la tensione».

Il mestiere del difensore è difficile da fare, e sbrigativo nell’essere valutato dall’esterno. Se di un attaccante si ricordano gol e dribbling, è difficile che rimangano nella memoria altrettanti contrasti o salvataggi o anticipi di un difensore. Perché è un ruolo sempre attivo, non soltanto quando la palla è vicina, dice lui: «Gli attaccanti se gli lasci spazio ti fanno sempre gol. Uno deve disturbare i movimenti, prevenirli, lavorare su cose che li mandino in corto circuito. Sono sempre stato così, credo che i grandi duelli vadano vissuti anche in questo modo. Non sono di sicuro piacevole da affrontare, ma non sono mai stato scorretto. E poi ormai sono più riflessivo, meno impulsivo». Su Youtube si trova un duello in particolare, se si cerca la parola “Chiellini”, e risale a un incrocio Juventus-Inter del 2007, contro Ibrahimovic. Ci sono scivolate violente, gomitate, ginocchiate, ed è tutto reciproco. Eppure se gli chiedo qual è l’avversario peggiore da affrontare lui risponde «Ibrahimovic, tra quelli passati in Italia l’attaccante più forte degli ultimi dieci anni, perché spostava clamorosamente gli equilibri del campionato».

Una cosa che ho imparato, conoscendo negli anni diversi calciatori, è che ce ne sono di ogni tipo. Sarebbe naturale pensarlo, esattamente come esistono vari tipi di scrittore, o di autista di autobus, o di editore, o di politico, o di giardiniere e di bibliotecario e di professore di liceo, ma la forma mentis con cui ci si approccia al calcio è spesso diversa da quella che si riserva ad altri lavori. Chiellini, ad esempio, è quel tipo di giocatore che ha deciso di laurearsi una volta, e poi una seconda volta. Gli chiedo se è allora quel tipo di giocatore che studia l’evoluzione del gioco e del ruolo, e lui dice: «Io studio continuamente, sia per migliorarmi, sia per capire gli avversari, quotidianamente e settimanalmente». Poi torna su quello che è un suo punto, perché riguarda il suo ruolo all’interno del campo, che è il cambiamento del difensore: «Ma non credo sia un bene snaturare la propria identità. Credo che l’avvento del guardiolismo, chiamiamolo così, in Italia abbia snaturato quello che ci ha sempre portati in fondo alle grandi manifestazioni per anni, cioè l’arte di saper difendere. C’è un buco generazionale nei difensori impressionante, ed è dovuto a questa cosa qui. Ormai i ragazzi arrivano in Serie A che si aprono bene, che sanno passare la palla, che sanno fare un lancio di quaranta metri, ma non hanno la minima idea di come si marchi, di come fare un uno contro uno. È una grossa deresponsabilizzazione e stiamo perdendo quello che poi ci ha portato in alto. Ogni squadra ha la sua storia, e devi prendere il bene dalle innovazioni. Pensa alla Germania: è la squadra che gioca il calcio migliore al mondo perché sanno combinare al meglio tutte le loro caratteristiche. Ma non bisogna snaturarsi, perché il rischio è quello di ritrovarsi senza difensori per dieci anni, ed è successo questo».

Torna di nuovo l’elemento dell’equilibrio, la visione della vittoria come di un senso matematico o di una legge fisica: se qualcosa funziona davanti, funzionerà anche dietro; se non c’è equilibrio, il sistema si romperà. Ormai Chiellini parla senza che lo debba incalzare e torna alla finale di Champions League di Cardiff, persa contro il Real Madrid. Dice: «Io sono stato criticato perché ho detto che la Juventus non è il Barcellona o il Real Madrid, che non siamo una squadra che vince sei a zero le partite, ma uno a zero, due a zero, però lo ribadisco. E il Real Madrid ci ha battuti perché Zidane ha avuto l’idea di togliere un giocatore offensivo e di mettere Casemiro davanti alla difesa, non ha vinto perché ha fatto un gol in più, ma perché ha subito un gol in meno».

Un’altra cosa che ho imparato, parlando negli anni con diversi calciatori, è che non tutti sono davvero appassionati di calcio. Giorgio Chiellini lo è. Dice: «È molto riduttivo per me chiamarlo lavoro, è la mia vita da tanto tempo. E quando smetterò – non manca tanto (ride, nda) – voglio rimanere nell’ambiente, con una carriera più da scrivania che da allenatore». È una passione, dice, che è maturata piano, non come una folgorazione. Gli chiedo se era un obiettivo che aveva fin da bambino, lui dice che no, non lo pensava, «perché a 12, o 14 anni, non è che si vedeva che ero più bravo degli altri. Però, anche se non ero né bello né bravo, c’ero sempre. È stato un percorso graduale in cui ho cercato di alzare il mio livello piano piano. Se vuoi fare salti troppo alti e poi cadi ti fai male. Invece il miglioramento continuo è un atteggiamento che uno deve avere anche a 40 anni».

Scherza molto sulla sua età, adesso che ha 33 anni, allora gli chiedo come se la cava, visto che è uno dei più vecchi, a fare il vecchio dello spogliatoio. Mi dice «non sono un bacchettone», e ricorda quando era lui il più giovane nello spogliatoio. Poi dice che «chiaramente ci sono molte differenze tra me e loro, ma più che altro cerco di indirizzarli nella gestione della vita, in alcuni atteggiamenti che sono ingredienti fondamentali per fare il calciatore. Perché il passaggio, il tiro, il gol, la parata, quella è solo l’ultima parte di un processo che devi vivere quotidianamente. Ci sono tanti rischi a fare questo lavoro». Anche qui si vede un disegno armonico, in cui ogni cosa deve essere al suo posto. Torna anche quando parla di Nazionale, e dice che «il calcio non si cambia in un giorno», e anche quando gli chiedo se, quando gli capita di fare dei bilanci, non gli manca quel Mondiale del 2006. Risponde di no con una tranquillità che mi dice che è sincero, anche se ha l’aria di chi ci ha pensato più volte: «Non meritavo di esserci a quel Mondiale. E poi avevo 20 anni, non me la sarei goduta del tutto», e va avanti da solo, a raccontare dei suoi 20 anni e del suo primo scudetto, «non mi rendevo conto neanche di cosa ci volesse, mi sembrava così facile. Avevo fatto metà delle partite, avevo solo dato una mano. Non mi ero accorto di quanta difficoltà ci volesse, e quindi di quanta soddisfazione comportasse». E finisce così, Giorgio Chiellini, a sottolineare quanto sta bene con i suoi 33 anni e la sua maturità, la sua saggezza.

 

Dal numero 19 di Undici